Ricercatori americani dell’UCLA e del Buck Institute, grazie a un programma terapeutico basato su trentasei punti, sono riusciti a invertire il declino cognitivo in dieci pazienti.
Tra le malattie che colpiscono il sistema nervoso centrale, le cosiddette neurodegenerative, ovvero quelle legate alla progressiva morte dei neuroni con conseguenze cognitive, motorie e comportamentali, hanno un impatto estremamente significativo a livello socioeconomico, in particolar modo il morbo di Alzheimer, la cui diffusione è in costante e drammatica ascesa; basti pensare che alcuni studi predittivi indicano che nel 2050 ne soffriranno ben 160 milioni di persone in tutto il mondo, contro le circa 30 milioni attuali.
Una cura per questa patologia, descritta per la prima volta agli inizi del XX secolo dal neuroscienziato e psichiatra tedesco Alois Alzheimer, ancora non è disponibile, e benché attraverso trattamenti specifici e modifiche nello stile di vita si possa intervenire per prevenire o comunque rallentare il decorso dei sintomi, i laboratori di tutto il mondo sono costantemente impegnati nella lotta contro la formazione delle placche amiloidi nel cervello, strettamente correlate alla malattia.
Da un nuovo, importantissimo studio, realizzato in collaborazione tra il prestigioso Buck Institute di Novato (California) e i Laboratori Easton dell’Università della California di Los Angeles (UCLA), entrambi impegnati nella ricerca su invecchiamento e patologie neurodegenerative, giunge tuttavia una speranza concreta: per la prima volta, infatti, i ricercatori sono riusciti a invertire il processo della perdita di memoria, ottenendo risultati straordinari in un piccolo gruppo di pazienti.
Lo studio, coordinato dal professor Dale Brendesen, docente presso entrambe le strutture coinvolte, è stato condotto su dieci volontari e plasmato attorno a un trattamento fortemente personalizzato, basato su un programma di ben trentasei punti terapeutici specifici. Tra essi, un cambiamento sostanziale nelle abitudini alimentari, esercizio fisico, ottimizzazione delle ore di sonno, stimolazione cerebrale e assunzione di farmaci e vitamine ad hoc. “Questi pazienti – ha sottolineato il ricercatore – prima di iniziare il trattamento avevano ricevuto tutti una diagnosi di declino cognitivo lieve, deficit cognitivo soggettivo o di morbo di Alzheimer, e i nostri test di follow-up hanno dimostrato che per alcuni di essi si è passati da una situazione di anormalità a quello di normalità”. Nei dettagli dello studio, pubblicati sulla rivista scientifica specializzata Aging, i ricercatori hanno elencato gli incredibili progressi compiuti da alcuni dei pazienti coinvolti. Benché le risonanze magnetiche e i test neuropsicologici indicassero la presenza della patologia neurodegenerativa in un paziente di 66 anni, il cui volume dell’ippocampo era pari al 17 percento del normale, dopo dieci mesi di trattamento questo valore è risalito fino al 75 percento, mostrando un sensibile miglioramento della sintomatologia. Un altro paziente di 69 anni, un imprenditore che perdeva progressivamente la memoria da ben undici anni, dopo alcuni mesi di terapia è tornato a riconoscere i volti dei collaboratori e ad organizzare efficacemente il proprio lavoro. Anche in questo caso il volume ippocampale ha subito un drastico aumento percentuale, salendo dal 3 percento all’84 percento. Risultati analoghi sono stati riscontrati in una donna di 49 anni, tornata a parlare una lingua straniera e ad avere un netto miglioramento nel vocabolario, nel riconoscimento facciale e nella lettura dopo nove mesi dall’inizio del programma.
Nonostante gli ottimi risultati ottenuti, legati anche all’analisi genetica dei pazienti e allo studio dell’allele APOE-4 che è correlato a un rischio maggiore di demenza, il team di Brendesen indica che, per confermare l’efficacia dei trentasei punti, il trattamento terapeutico deve essere testato su un campione indubbiamente superiore di soggetti. La lotta al morbo di Alzheimer è serrata e solo alcuni giorni addietro è emerso un altro studio interessante, pubblicato su Alcoholism: Experimental and Clinical Research: ricercatori finlandesi dell’Università di Tampere, infatti, hanno scoperto che il consumo moderato di birra potrebbe essere collegato alla formazione delle placche amiloidi nel tessuto cerebrale, fungendo in qualche modo da barriera protettiva contro la loro comparsa.