Questo scenario è stato suggerito da Konstantin Batygin, un ricercatore del Caltech che si occupa di scienze planetarie, e Gregory Laughlin dell’Università della California in un articolo che appare nell’edizione di questa settimana dei Proceedings of National Academy of Sciences (PNAS)
Uno studio condotto da ricercatori del Caltech e dell’Università della California a Santa Cruz sostengono che la Terra appartenga ad una seconda generazione di pianeti.
Molto prima che si siano formati Mercurio, Venere, Terra e Marte, sembra che il sistema solare interno possa aver ospitato un certo numero di Super Terre, pianeti più grandi della Terra ma più piccoli di Nettuno.
Se così fosse, questi pianeti sarebbero scomparsi molto tempo fa, distrutti e caduti verso il Sole miliardi di anni fa a causa dello spostamento di Giove, prima verso l’interno e poi verso l’esterno, avvenuto nei primi stadi di vita del sistema solare.
Questo scenario è stato suggerito da Konstantin Batygin, un ricercatore del Caltech che si occupa di scienze planetarie, e Gregory Laughlin dell’Università della California in un articolo che appare nell’edizione di questa settimana dei Proceedings of National Academy of Sciences (PNAS). I risultati delle loro simulazioni suggeriscono la possibilità di una nuovo scenario, che potrebbe rispondere a una serie di questioni in sospeso circa l’attuale composizione del sistema solare e della Terra stessa. Ad esempio, questo lavoro spiega perché i pianeti terrestri del nostro sistema solare hanno masse relativamente basse, se confrontate con i pianeti in orbita attorno ad altre stelle simili al Sole.
«Il nostro lavoro indica che la migrazione di Giove verso l’interno e verso l’esterno potrebbe aver distrutto una prima generazione di pianeti e posto le basi per la formazione dei pianeti terrestri, impoverendo la massa totale del sistema solare così come lo conosciamo oggi», dice Batygin. «Tutto questo si adatta perfettamente ad alcuni recenti sviluppi nella comprensione di come il sistema solare si è evoluto, oltre a colmare alcune lacune».
Grazie alle recenti survey di esopianeti, ovvero pianeti in sistemi solari diversi dal nostro, sappiamo che circa la metà delle stelle simili al Sole nel nostro vicinato galattico hanno sistemi planetari. Eppure questi sistemi sembrano molto diversi dal nostro. Nel nostro sistema solare lo spazio all’interno dell’orbita di Mercurio è sostanzialmente vuoto, ci sono una manciata di detriti, probabilmente asteroidi con orbite prossime a quella terrestre che si sono spostati verso l’interno, ma senza dubbio non ci sono pianeti. Questo è in netto contrasto con ciò che si osserva nella maggior parte dei sistemi planetari extrasolari. Questi sistemi hanno in genere uno o più pianeti più massicci della Terra in orbite più vicine alla propria stella di quanto non sia Mercurio, e pochissimi oggetti a distanze maggiori.
«Sembra che il sistema solare odierno non rappresenti ciò che avviene comunemente nella nostra galassia: siamo un caso speciale», dice Batygin. «Tuttavia non c’è ragione di pensare che il canale più frequente di formazione di pianeti nella galassia non dovrebbe avuto luogo anche qui. è molto più probabile che cambiamenti successivi abbiano modificato la composizione originale del sistema solare».
Secondo Batygin e Laughlin, la chiave per capire perché il sistema solare sia diventato così com’è oggi è Giove. Il loro modello incorpora il cosiddetto scenario di “Grand Tack”, proposto per la prima volta nel 2001 da un gruppo della Queen Mary University di Londra e successivamente rivisitato nel 2011 da un team dell’Osservatorio di Nizza. Questo scenario afferma che durante i primi milioni di anni di vita del sistema solare, quando i pianeti erano ancora immersi in un disco di gas e polvere attorno ad un Sole relativamente giovane, Giove è diventato così massiccio e gravitazionalmente influente che è stato in grado di creare un varco nel disco. E mentre il Sole attirava il disco di gas verso se stesso, anche Giove ha iniziato a spostarsi verso l’interno, come se venisse tirati da un enorme nastro trasportatore.
«Giove avrebbe continuato in quella direzione, finendo poi per cadere sul Sole, se non fosse stato per Saturno», spiega Batygin. Saturno si è formato dopo Giove, ma è stato tirato verso il sole ad una velocità maggiore, permettendogli così di recuperare. Una volta che i due pianeti massicci si sono trovati abbastanza vicini, si sono agganciati in un particolare tipo di rapporto chiamato risonanza orbitale, ovvero i loro periodi di rivoluzione sono tali da essere esprimibili come rapporto di numeri interi. In una risonanza orbitale 2:1, per esempio, Saturno completerebbe due orbite intorno al Sole nello stesso tempo impiegato da Giove per compiere una singola orbita. Trovandosi in una relazione di questo tipo, i due corpi avrebbero iniziato ad esercitare un’influenza gravitazionale uno sull’altro.
«Tale risonanza ha permesso ai due pianeti per aprire un varco reciproco nel disco, e hanno iniziato a cedersi vicendevolmente momento angolare ed energia, quasi come una danza ritmata», dice Batygin. Ad un certo punto, quell’avanti e indietro avrebbe causato l’espulsione di tutto il gas presente tra i due pianeti, una condizione che avrebbe invertito la direzione di migrazione dei pianeti rimandandoli verso le zone esterne del sistema solare. (Da qui, la parte “tack”, letteralmente “virare”, dello scenario Gran Tack: i pianeti migrano verso l’interno e poi cambiare rotta in modo drammatico, qualcosa di simile a una barca che vira intorno a una boa).
In un modello precedente, sviluppato da Bradley Hansen della University of California di Los Angeles, i pianeti terrestri finiscono nelle loro orbite attuali con le loro masse attuali a seguito di un particolare insieme di circostanze. Tali circostanze prevedono che 10 milioni di anni dopo la formazione del Sole tutti mattoni che formeranno poi il sistema solare interno, detti planetesimi, occupino un anello che si estende da 0.7 a 1 unità astronomica (1 unità astronomica è la distanza media dal Sole alla Terra). Secondo lo scenario Gran Tack, il bordo esterno di questo anello sarebbe stato tracciato da Giove mentre si muoveva verso il Sole sul suo “nastro trasportatore”, creando un vuoto nel disco fino all’attuale orbita terrestre.
E per quanto riguarda il bordo interno? Perché i planetesimi si sono limitati spazialmente nella parte interna? «Questo punto non è stato affrontato», dice Batygin.
Konstantin Batygin ritiene che la risposta potrebbe risiedere nelle Super Terre primordiali. La zona vuota del sistema solare interno corrisponde quasi esattamente alla porzione orbitale dove si trovano in genere le Super Terre. è quindi ragionevole ipotizzare che questa regione, nelle fasi primordiali del sistema solare, sia stata ripulita di un gruppo di pianeti di prima generazione che non sono sopravvissuti.
I calcoli e le simulazioni prodotte da Batygin e Laughlin mostrano che mentre Giove si muoveva verso l’interno, ha trascinato con sé tutti i planetesimi incontrati lungo la strada, portandoli verso il Sole. Mentre i planetesimi si avvicinavano al Sole, le loro orbite sono diventate più ellittiche. «Non si può ridurre la dimensione di un’orbita senza pagare un prezzo, e tale prezzo risulta essere una aumento di ellitticità», spiega Batygin. Queste nuove orbite più allungati hanno permesso ai planetesimi, soprattutto quelli con raggi dell’ordine di 100 km, di penetrare regioni precedentemente inesplorate del disco, scatenando collisioni a cascata tra i detriti. In realtà, i calcoli di Batygin mostrano che durante questo periodo ogni planetesimo si sarebbe scontrato con un altro oggetto, almeno una volta ogni 200 anni, con violenza tale da spezzarsi e cadere verso il Sole.
I ricercatori hanno sviluppato una simulazione finale per vedere cosa sarebbe successo a una popolazione di Super Terre nel sistema solare interno se si fossero trovati in quella zona quando questa cascata di collisioni fosse iniziata. Hanno effettuato la simulazione sfruttando i dati di un sistema extrasolare ben noto come Kepler-11, che dispone di sei Super Terre, con una massa totale parei a 40 volte quella della Terra, in orbita intorno ad una stella simile al Sole. Il risultato? Il modello prevede che le Super-Terre verrebbero guidate verso il Sole da una valanga di planetesimi in decomposizione nell’arco di un periodo di 20.000 anni.
«E’ un processo fisico molto efficace», dice Batygin. «Servono soltanto di un paio di masse terrestri per portare materiale pari a decine di masse terrestri nel Sole».
Batygin osserva che quando Giove ha effettuato la sua virata, alcune parti dei planetesimi che portava con sé si sarebbero potute fermare lungo orbite circolari. Basterebbe che circa il 10% del materiale travolto dal passaggio di Giove sia rimasto alle sue spalle per garantire la massa che oggi costituisce Mercurio, Venere, Terra e Marte.
A partire da quel momento, ci sarebbero voluti milioni di anni per permettere ai planetesimi di addensarsi e di formare il pianeti terrestri. Questo scenario si adatta bene ai dati che suggeriscono che la Terra si sia formata 100-200 milioni di anni dopo la nascita del Sole. Dal momento che il disco primordiale di idrogeno ed elio sarebbe ormai lontano nel tempo, questo potrebbe anche spiegare perché la Terra non ha una atmosfera composta di idrogeno. «Ci siamo formati da questi detriti volatili impoveriti», dice Batygin.
Tutto questo ci contraddistingue dalla maggioranza dei sistemi planetari extrasolari. Batygin si aspetta che la maggior parte degli esopianeti, per lo più Super Terre, abbiano atmosfere composte essenzialmente da idrogeno, poiché si formano in una fase dell’evoluzione del loro disco planetario durante la quale l’idrogeno è ancora abbondante. «In definitiva, ciò significa che i pianeti come la Terra non sono in realtà molto comuni», dice.
L’articolo suggerisce anche che la formazione di giganti gassosi come Giove e Saturno, un processo che gli scienziati ritengono relativamente raro, svolga un ruolo importante nel determinare se un sistema planetario evolve come il nostro o come i sistemi, più tipici, con Super Terre in orbite vicine alla propria stella. Più identificheremo nuovi sistemi planetari che ospitano giganti gassosi, più Batygin e Laughlin avranno dati con i quali potranno testare la propria ipotesi e verificare quanto spesso le migrazioni dei pianeti giganti inneschino cascate collisionali, spedendo le Super Terre primordiali sulla loro stella ospite.
Elisa Nichelli