Alla scoperta di un’eredità perduta. I più intriganti “manufatti” antichi, per i quali la scienza e la tecnica non hanno trovato una spiegazione logica.
Tutte le immagini esposte nei musei o raffigurate nei libri di storia mostrano come l’umanità si sia evoluta da uno stadio primitivo procedendo progressivamente verso lo sviluppo della cultura e della scienza. La maggior parte degli artefatti conservati nei musei come dati archeologici e geologici, è stata disposta in modo da corroborare questa visione lineare del nostro passato.
Eppure, molti pezzi allettanti riportati alla luce offrono una versione completamente diversa di ciò che sarebbe avvenuto in realtà.
I cosiddetti OOPARTS (da: Out Of Place Artifacts – artefatti fuori posto) non seguono il tragitto preordinato della preistoria, ma puntano sull’esistenza di avanzate civiltà prima della nascita di tutte le antiche culture conosciute.
Sebbene queste scoperte siano ben documentate e conosciute, molti storici continuano a far finta di nulla e cercare di tenere tali anomalie storiche nascoste. Ma dopo tanto nascondere, la verità sta venendo a galla, con tutte le sue ovvie contraddizioni.
Ancora più significativo è il fatto che i misteriosi oggetti confermano antiche storie e leggende che descrivono l’umanità non come lineare ma ciclica. Ere dimenticate e mondi precedenti sono sorti e caduti in epocali cicli di vita e morte per milioni di anni, persi nella nostra memoria ma non nei miti, ritornando ora a noi per mezzo di alcuni sorprendenti oggetti. Quanto segue è una lista degli undici più importanti OOPARTS e ciò che ci rivelano della nostra eredità perduta.
LA PILA DI BAGDAD
Nel 1938 il dottor Wilhelm Konig, un archeologo australiano fece una scoperta che avrebbe alterato drasticamente tutti i concetti di scienza. Nei sotterranei di un museo rinvenne un vaso alto 15 centimetri e mezzo di argilla gialla risalente a due millenni fa, contenente un cilindro di rame di 12cm per quattro. La sommità del cilindro era saldata con una lega 60-40 di piombo-stagno paragonabile alle migliori saldature di oggi. Il fondo del cilindro era tappato con un disco di rame e sigillato con bitume o asfalto.
Un altro strato di asfalto isolante sigillava la parte superiore e teneva anche a posto un’asta di ferro sospesa al centro del cilindro di rame. L’asta mostrava di essere stata corrotta dall’acido. Con un background in meccanica il dottor Konig intuì che la configurazione non era dovuta ad un caso fortuito, ma che il vaso di argilla altro non era che un’antica pila elettrica. Questa batteria, insieme alle altre trovate in Iraq, si trova nel museo di Bagdad e risalgono all’occupazione parto-persiana, tra il 248 a.C. e il 226 d.C.
Il museo di Baghdad catalogò il reperto come oggetto di culto del popolo dei Parti (226-630 a.C.). Affascinato dalla scoperta, il noto studioso Willy Ley incaricò la “General Electric” di Pittsfield di costruire alcune copie esatte degli strumenti, che, riempite di solfato di rame in luogo dell’ elettrolito sconosciuto, si dimostrarono perfettamente funzionanti a produrre una leggera corrente elettrica. A seguito del ritrovamento, ulteriori ricerche dimostrarono l’ esistenza di una setta che custodiva il segreto dell’ elettricità.
Sembra infatti che nell’ antica Babilonia siano venuti alla luce resti di accumulatori fabbricati 3-4 mila anni fa su “istruzioni” egizie. E’ importante ricordare, inoltre, che sempre in Iraq, altri scienziati hanno scoperto materiale dorato risalente a quattromila anni fa, materiale che non può essere stato placcato se non mediante l ‘elettricità.
Nella letteratura greca si fa inoltre menzione di “gioielli che illuminano la notte”: gli antichi non capivano tale fenomeno; se l’ elettricità era davvero conosciuta poteva avere solo un uso sacro ed il segreto, celato dai sacerdoti, sarebbe andato perduto insieme ai culti di cui erano depositari.
Indubbiamente, qualcuno deve pur averla inventata questa pila, e di sicuro quel qualcuno non è Alessandro volta, il fisico comasco del primo Ottocento. Dobbiamo ancora prendere atto che non c’ è nulla di nuovo sotto il sole: ci limitiamo semplicemente a riscoprire conoscenze che erano già note migliaia e migliaia di anni prima della nostra era.
LE LAMPADE DI DENDERA
Scoperte verso la metà dell’ 800 da Auguste Mariette, fondatore del Museo Egizio del Cairo, le cripte di Dendera offrirono ai loro scopritori numerosissimi bassorilievi di pregiata fattura, raffiguranti, secondo gli archeologi, scene di rituali religiosi.
Sulla maggior parte di questi si notano infatti scene di processioni, ma un bassorilievo in particolare, denominato “pietra delle serpi”, oltretutto l’unico che si può ancora ammirare nell’ unica cripta lasciata aperta ai visitatori dopo che nel 1973, vi si verificarono dei furti, suscita ad un occhio attento molte perplessità sia sull ‘interpretazione data dagli archeologi sia su quello che l’autore dei bassorilievi volesse rappresentare.
La familiarità dei manufatti raffigurati in queste incisioni non può non farci riflettere.
In diversi luoghi all’interno del tempio tardo Tolemaico di Hathor a Dendera, in Egitto, strani bassorilievi sulle pareti intrigano da anni gli studiosi. Difficile, infatti, per loro spiegarne la natura, sulla scorta di temi mitico-religiosi tradizionali, ma nuove e più moderne interpretazioni ci giungono dal campo dell’ingegneria elettronica. In una camera, il numero 17, il pannello superiore, mostra alcuni sacerdoti egiziani che fanno funzionare quelli che appaiono come tubi oblunghi che compiono diverse funzioni specifiche. Ogni tubo ha all’interno un serpente che si estende per tutta la sua lunghezza.
L’ingegnere svedese Henry Kjellson, nel suo libro “Forvunen Teknik” (tecnologia scomparsa) fece notare che nei geroglifici quei serpenti sono descritti come “seref”, che significa illuminare, e ritiene che si riferisca a qualche forma di corrente elettrica. Nella scena, all’estrema destra, appare una scatola sulla quale siede un’immagine del Dio egiziano Atum-Ra, che identifica la scatola quale fonte di energia. Attaccato alla scatola c’è un cavo intrecciato che l’ingegner Alfred D. Bielek identifica come una copia esatta delle illustrazioni odierne che rappresentano un fascio di fili elettrici.
I cavi partono dalla scatola e corrono su tutto il pavimento, arrivando alle basi degli oggetti tubolari, ciascuno dei quali poggia su un sostegno chiamato “djed” (lo Zed) che Bielek identificò con un isolatore ad alto voltaggio, Da notare che questo generatore con la classica forma di uno “Djed” è un’ oggetto rinvenuto in molti disegni e bassorilievi egizi, ma di cui non si è ancora potuto accertare con certezza la funzione. Alcune ipotesi lo indicano come un “generatore di vita”, nel senso forse religioso del termine.
Ulteriori immagini trovate all’interno della cripta mostrano quelle che potrebbero essere altre applicazioni del congegno: sui bassorilievi si vedono uomini e donne assisi sotto i tubi, come in una postura per creare una modalità ricettiva. Che tipo di trattamento irradiante vi si stava svolgendo?
Nel bassorilievo in questione si notano due figure che sorreggono due enormi “ampolle” che assomigliano molto a potenti lampade elettriche, con cavi a treccia attaccati a quello che potrebbe essere un interruttore o un generatore.
llustri studiosi, davanti a queste rappresentazioni, hanno provato stupore poichè mai avevano ammirato nulla di simile. Alcuni sostengono appunto si tratti di enormi lampade elettriche che proverebbero l’ uso, da parte degli egizi, di fonti luminose. Anche se appare incredibile contemplare un’ ipotesi simile non bisogna dimenticare le considerazioni di studiosi come R. Habeck e P. Krassa secondo cui i rilievi riprodurrebbero processi elettrotecnici. Queste ipotesi sono state avanzate dai citati studiosi sui brani trasposti da un altro eminente ricercatore, il dott. Waitkus, che ha tentato di decifrare i geroglifici delle cripte. Gli antichi egizi conoscevano forse la corrente elettrica?
Od erano solo custodi di tecnologie che loro non comprendevano, ma che avevano imparato ad usare da chi le aveva inventate, forse millenni prima?
LA COLONNA DI ASHOKA
La cosiddetta colonna di Ashoka è una testimonianza dell’antica abilità metallurgica a Dheli, India. E’ alta oltre sette metri, per circa 40 cm di diametro e pesa sulle sei tonnellate. Sulla base vi è un’iscrizione quale epitaffio per il re Chandra Gupta II che morì nel 413 D.C.. La colonna è mirabilmente conservata; la superficie liscia sembra ottone lucidato e il mistero si infittisce, visto che qualsiasi altra massa di ferro soggetta alle piogge e ai venti dei monsoni indiani per 1600 anni si sarebbe ridotta in ruggine molto tempo fa.
Le analisi di esperti dell’Istituto Indiano di Tecnologia, guidati dal professor R. Balasubramaniam, hanno dimostrato che si tratta di una particolare proprietà del metallo di cui è fatta, un ferro molto puro, con una percentuale insolitamente elevata di fosforo dovuta ad una particolare tecnica di fusione realizzata dagli artigiani del tempo.
Il fosforo col tempo avrebbe favorito la formazione per catalisi di uno strato protettivo (δ-FeOOH) sulla superficie della colonna, un composto di ferro, ossigeno e idrogeno spesso 5 centesimi di millimetro in grado di proteggere il ferro dolce dall’aggressione dell’atmosfera. Secondo i sostenitori della sua posizione “fuori dal tempo” tale effetto sarebbe voluto, dimostrando che gli artigiani dell’antica India sarebbero stati in possesso di una tecnologia metallurgica particolarmente avanzata.
IL COMPUTER DI ANTIKYTHERA
Pochi giorni prima della domenica di Pasqua del 1900 alcuni subacquei greci della piccola isola di Antikythera scoprirono il relitto di un’antica nave piena di statue di marmo e bronzo e artefatti vari, datati tra l’85 e il 50 a.C. Tra i reperti spiccava un frammento informe di bronzo corroso e legno marcio che fu mandato insieme agli altri oggetti al museo nazionale di Atene per ulteriori studi. I frammenti di legno, nell’asciugarsi si spaccarono, rivelando al loro interno lo schema di una serie di ingranaggi simili a quelli di un moderno orologio.
Nel 1958 il dottor Derek J. De Solla Price riuscì a ricostruire con successo l’aspetto e l’impiego della macchina. Il sistema di rotelle calcolava i movimenti annuali del sole e della luna e si poteva muovere facilmente da dietro a qualsiasi velocità. L’apparecchio quindi non era un orologio, ma più verosimilmente una sorta di calcolatore, che poteva mostrare le posizioni passate, presenti e future del cielo.
Per info più dettagliate la macchina di Antikythera
L’uccello di Saqqara
Risale almeno al 200 a.C., e attualmente è esposto al Museo Egizio del Cairo. Per la sua forma, che ricorda quella di un aliante, questo oggetto è stato a lungo considerato un OOPArt, anche se recenti studi sembrano smentire questa ipotesi. L’artefatto ha una lunghezza di 14.2 cm e un’apertura alare di 18.3 cm. Pesa 39.120 grammi. Sulla parte anteriore sono visibili il becco e gli occhi, e la coda è posta stranamente in verticale. Fra il corpo e la coda è possibile vedere una linea di demarcazione. Attualmente la pittura è scomparsa, ma è possibile che in origine fosse stato dipinto in modo da somigliare a un falcone (rimane solo una traccia di pittura, su un lato della coda).
Benché la coda sia alquanto diversa da quella della maggioranza delle rappresentazioni di uccelli dell’antico Egitto, quasi tutti gli egittologi sono concordi nel ritenere che si tratti della rappresentazione di un uccello dalle ali spiegate. Lo scopo invece è ancora sconosciuto. Potrebbe trattarsi di un oggetto cerimoniale: in questo caso l’oggetto ritrarrebbe un falcone (rappresentazione del dio Horus), oppure il ba egizio. La forma della coda ha suggerito che si possa trattare di una banderuola per il vento, forse collocata sulle barche sacre. Questa ipotesi sembrerebbe confermata da alcuni rilievi trovati nel Tempio di Khonsu a Karnak e datati al tardo Nuovo Regno, in cui si vedono banderuole simili che ornano la prua di tre barche usate durante le feste di Opet.
Secondo altre interpretazioni potrebbe trattarsi di un giocattolo per bambini, o anche di un tipo particolare di boomerang.
Controversie sull’ Uccello di Saqqara
Alcuni studiosi ed esponenti dell’archeologia misteriosa hanno avanzato l’ipotesi che possa trattarsi del modello di un aereo. Il primo ad aver avanzato questa ipotesi è stato il professor Khalil Messiha, professore di Anatomia artistica all’università di Helwan e membro dell’Egyptian Aeronautical club.
Messiha notò che erano assenti le zampe dell’uccello, e che non era visibile alcun intaglio che rappresentasse le piume. Inoltre nelle usuali rappresentazioni la coda dei volatili è orizzontale, mentre nell’artefatto era verticale. Ne dedusse che non poteva trattarsi della rappresentazione di un uccello, e che doveva trattarsi invece del “modellino di un monoplano originale, il quale doveva trovarsi ancora a Saqqara”. Nel 1983, insieme ad altri studiosi, pubblicò le sue conclusioni nel giornale Blacks in Science.
Da allora l’uccello di Saqqara ha attirato l’attenzione di un pubblico considerevole, ed è stato considerato “tra i primi 10 OOPArts”
Sulla base di queste supposizioni, alcuni studiosi testarono la possibilità del modellino di volare. Il modellino – per come è giunto a noi – sarebbe stato totalmente instabile, e non avrebbe mai potuto funzionare come un aliante. Messiha stesso riconobbe che il modellino avrebbe potuto funzionare solo nel caso in cui fosse stata presente una coda, ma suppose che fosse andata perduta.
Il test conclusivo venne effettuato da Martin Gregorie, un disegnatore e costruttore di alianti con oltre 30 anni di esperienza. Ricostruì il modellino e lo dotò di una coda, per testarne le capacità di volo. Alla fine concluse che “…L’uccello di Saqqara non avrebbe mai potuto volare. È totalmente instabile senza una coda… Ma anche con una coda le sue performance di volo sono assolutamente deludenti”, concludendo che “l’uccello di Saqqara Bird era probabilmente un giocattolo per bambini o una banderuola per il vento.”
Benché la coda sia alquanto diversa da quella della maggioranza delle rappresentazioni di uccelli dell’antico Egitto, quasi tutti gli egittologi sono concordi nel ritenere che si tratti della rappresentazione di un uccello dalle ali spiegate. Lo scopo invece è ancora sconosciuto. Potrebbe trattarsi di un oggetto cerimoniale: in questo caso l’oggetto ritrarrebbe un falcone (rappresentazione del dio Horus), oppure il ba egizio. La forma della coda ha suggerito che si possa trattare di una banderuola per il vento, forse collocata sulle barche sacre. Questa ipotesi sembrerebbe confermata da alcuni rilievi trovati nel Tempio di Khonsu a Karnak e datati al tardo Nuovo Regno, in cui si vedono banderuole simili che ornano la prua di tre barche usate durante le feste di Opet.
Nel 1971 fu istituita un’apposita commissione tecnica formata da esperti con al vertice l’allora ministro della cultura egiziano Gamal El-Din Moukthar per esaminare il modello. Dopo un’attenta analisi commissionata dagli esperti aeronautici si giunse alla conclusione che il modello era troppo semplice per essere un giocattolo ma possedeva canoni aerodinamici che soltanto velivoli aerei moderni posseggono. E così, in base a questi elementi,fu indicato che il modello era adatto al volo, capace di volare ribattezzandolo come “l’aereo del Faraone”.
Il test conclusivo venne effettuato da Martin Gregorie, un disegnatore e costruttore di alianti con oltre 30 anni di esperienza. Ricostruì il modellino e lo dotò di una coda, per testarne le capacità di volo. Alla fine concluse che “…L’uccello di Saqqara non avrebbe mai potto volare. È totalmente instabile senza una coda… Ma anche con una coda le sue performance di volo sono assolutamente deludenti”, concludendo che “l’uccello di Saqqara Bird era probabilmente un giocattolo per bambini o una banderuola per il vento.”
Molti continuarono ad ipotizzare che l’oggetto era la prova lampante che gli Egizi conoscevano la tecnica del volo e possedevano una tecnologia molto più avanzata di quella da noi immaginata, altri parlavano di un’origine extraterrestre o forse un dono da parte di un’antica civiltà precedente a quella Egizia di cui oggi molti ricercatori teorizzano l’esistenza…fantasia?!? Del resto la traduzione delle piccole iscrizioni che si trovano su questo modello sussurrano questa frase:”DONO DI AMON”. Forse questo “aereo del Faraone” sta a raffigurare qualche ordigno tecnologico appartenente a quell’epoca in cui gli “Dei” del cielo erano a contatto diretto con gli uomini?