Le religioni hanno un po’ tutte prestato grande attenzione alla nutrizione, essendo questa una delle funzioni fondamentali, primarie degli esseri viventi, che comincia prima della nostra nascita e prima dell’inizio della respirazione: tanto basilare da essere manifestazione di una struttura di legame con la Terra e la Vita, presente in senso proprio e in senso figurato
nel nostro linguaggio.
Troviamo, infatti, espressioni che oltre ai “nutrimenti terrestri” (Gide) si riferiscono ai nutrimenti dell’anima (Platone), che la lettura nutre lo spirito e che si nutrono anche fiducia, ambizioni, desideri e rancori. «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati» (Mt 5, 3), ci assicura il Vangelo e Gesù dice: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete» (Gv 6, 35).
Nella dottrina taoista, l’espressione “nutrire la vita” (cin. yang shen, giap. yojo) è da considerare sinonimo dello stile di vita del saggio, il quale in tal modo preserva la longevità conservando e impegnando il suo “capitale di vita”: non un’altra vita o l’immortalità, ma la lunga vita, la longevità essendo il coronamento di una vita saggia e compiuta.
La via (o Tao) da seguire per realizzare tale stile è così insegnata da Zhuang-zi, attraverso le parole di Nan-bo Zi-kui:
Una mattina ebbi la visione dell’unico. Questa visione mi permise di trascendere il passato e il presente. Riuscii allora a entrare nel regno dove la vita e la morte non esistono più. Chi uccide la vita non muore, chi produce la vita non nasce. Costui può tutto ricondurre e tutto accogliere, tutto distruggere e tutto compiere. Il suo stato d’animo si chiama “giungere alla quiete”. Colui che giunge alla quiete conquista la completezza (cap. 6, p. 62).
Data, dunque, l’importanza della funzione nutritiva, non saremo sorpresi di trovare numerose prescrizioni, riti sacrificali, divieti, inviti al digiuno, spesso organizzati in veri e propri codici alimentari. Qui vogliamo ricordare quanto la tradizione buddhista (Mahayana) ha indicato circa il profondo significato religioso della cucina, concepita non come mera abilità professionale (e indipendentemente dalle sue finalità biologiche), ma come una disciplina o, per dirla con Foucault, come una delle “tecnologie del sé”. Essenziale, anche in questo caso, l’atteggiamento mentale, da assumere concentrando l’attenzione sulla realtà che si sta effettivamente vivendo, sviluppando uno spirito di gratitudine, nella consapevolezza dei legami che uniscono alla Realtà universale.
Nelle sue Istruzioni a un cuoco zen, scritte nel 1237, Dogen ci offre un prezioso sommario della cucina come pratica spirituale. Per quel che riguarda la funzione attentiva egli raccomanda al tenzo, il cuoco del monastero, di maneggiare con cura gli ingredienti «come se fossero i suoi stessi occhi», mai lamentandosi per la quantità o qualità e facendo sì che la vita divenga, “naturalmente”, una cosa sola con il lavoro:
Tenete gli occhi aperti. Non lasciate che vada perso neppure un chicco di riso. Lavate il riso a fondo, mettetelo in pentola, accendete il fuoco e cuocetelo. Dice un vecchio proverbio: “considerate la pentola la vostra testa; considerate l’acqua il vostro sangue”. […] Giorno e notte lasciate che tutte le cose entrino nella vostra mente. Fate che la vostra mente e tutte le cose agiscano insieme come un tutto. Prima di mezzanotte rivolgete l’attenzione all’organizzazione del lavoro del giorno dopo; dopo la mezzanotte, cominciate i preparativi per la colazione.
Il lavoro del cuoco non si configurerà più come un servizio o un lavoro da considerare “umile” se ne verrà colto l’aspetto di pratica spirituale:
Coloro che ci hanno preceduto hanno detto: “Il tenzo realizza la Mente-che-ricerca-la-Via rimboccandosi le maniche”. […] Mantenete un atteggiamento che cerca di costruire grandi templi con verdure ordinarie, che espone il buddhadharma con l’attività più insignificante. […] Maneggiate anche una singola foglia di verdura in modo tale che manifesti il corpo del Buddha. Ciò a sua volta permette al Buddha di manifestarsi attraverso la foglia. […] Comprendete che una semplice verdura ha il potere di divenire la pratica del Buddha, se nutrite adeguatamente il desiderio di vivere la Via.
Tutto ciò richiede che le cose non siano considerate da una prospettiva ordinaria né secondo le nostre emozioni, ma con le tre menti (sanshin) e cioè con:
- una mente gioiosa («Rallegratevi della vostra nascita nel mondo, in cui siete in grado di usare liberamente il corpo per offrire il cibo ai Tre tesori: il Buddha, il Dharma e il samgha. Considerando le innumerevoli possibilità in un universo eterno abbiamo avuto un’occasione meravigliosa»);
- una mente da genitori («Allo stesso modo, quando toccate l’acqua, il riso o qualsiasi altra cosa, dovete avere la premura amorevole e sollecita dei genitori che allevano il loro bambino»);
- infine, e soprattutto, una mente magnanima (letteralmente, una grande anima), una mente capace di una realizzazione profonda della Vacuità («La mente magnanima è come una montagna, stabile e imparziale. Paragonandola all’oceano è tollerante e considera ogni cosa dalla prospettiva più ampia. Avere una mente magnanima significa essere privi di preconcetti e rifiutarsi di prendere una posizione»).
Il corretto atteggiamento che trasforma il cucinare in una pratica spirituale si può riassumere nell’espressione giapponese chori ni kometa aijo, che possiamo tradurre con “cucinare con amore”: questo comporta una costante attenzione nella scelta degli ingredienti, nella preparazione del cibo, nella condotta da tenere durante la preparazione.
Nella scelta degli ingredienti grande attenzione sarà data alle variazioni stagionali, in modo da utilizzare ciò che offre la stagione, variare il cibo e mettersi in una relazione la più armonica possibile con la natura. È consigliata poi la recitazione di sutra e preghiere da chi assiste o aiuta il cuoco durante la preparazione.
In vari modi dovrebbe essere garantito il massimo rispetto dell’armonia, bilanciando i 5 metodi (bollire, grigliare, friggere, cuocere al vapore, servire crudo), i 6 gusti (amaro, acido, dolce, piccante, salato, delicato/leggero) e i 5 colori (verde, giallo, rosso, bianco, scuro) per ottenere un cibo che sia leggero, pulito, accurato. La creatività personale assicurerà tutte le possibili variazioni che consentono di preparare un pasto gradevole, ma si dovrà anche aver cura di non sprecare nulla.
Per quanto riguarda la condotta da tenere al momento del pasto, mangiare è, in questo contesto, molto di più che nutrirsi, essendo un’occasione per riflettere sulla natura e sull’origine del cibo, su come questo è stato preparato, domandandosi anche se si è veramente degni di servirsene. L’atteggiamento contemplativo renderà ciò che assumiamo un pasto di quiete e di consapevolezza, un nutrimento insieme del corpo e dello spirito. Al momento del pasto, andranno perciò ricordati i seguenti 5 propositi o “raccomandazioni”:
- Esprimo la mia riconoscenza per la benevolenza dell’universo e per il lavoro di tutte le persone che hanno contribuito a darmi questo cibo.
- Prendo questo cibo riflettendo sulle mie imperfezioni.
- Cercherò di vigilare per non lasciarmi andare ai tre veleni della inconsapevolezza, della avidità e della collera al fine di utilizzare giustamente questo cibo.
- Prendo questo cibo ricordando che mi fornisce l’essenziale per la salute del corpo.
- Prendo questo cibo utile per la salute e il vigore del mio corpo, necessari per proseguire lungo il cammino degli insegnamenti del Buddha.
La quantità assunta sarà la minima sufficiente per assicurare lo svolgimento dei processi vitali e dovrà essere evitata ogni capricciosità nella scelta dei cibi. Come dice un insegnamento Tendai:
La bocca di un monaco è come un forno. Proprio come il forno brucia senza distinzioni il legno di sandalo e lo sterco di vacca, la nostra bocca dovrebbe essere eguale. Non vi dovrebbe essere alcuna distinzione tra il cibo raffinato e quello semplice e ordinario. Dovremmo essere soddisfatti di qualsiasi cosa riceviamo.
tratto da:
L’Esperienza del Corpo tra Buddhismo e modernità
cap. 3.3 Alimentazione