Meditare con le sacre scritture

meditare con le sacre scrittureL’autore di “La senti questa voce? Corpo, ascolto e respiro nella meditazione biblica” ci spiega somiglianze e differenze fra due diversi mondi spirituali, quello ebraico e quello orientale, proponendo un interessante ampliamento degli orizzonti delle pratiche contemplative, illuminando le potenzialità insite nella sfera culturale a noi più vicina

Dici meditazione e subito pensi alle pratiche legate alle tradizioni orientali, soprattutto a quella buddhista. C’è però anche un altro tipo di meditazione, quella sulla Scritture bibliche.

Giampiero Comolli, saggista e romanziere.
Giampiero Comolli, saggista e romanziere.

Ce lo insegna Giampiero Comolli, giornalista e scrittore specializzato nell’analisi dei fenomeni religiosi contemporanei, cofondatore dell’Accademia del Silenzio e presidente del Centro Culturale Protestante di Milano, che incontriamo per parlare del suo ultimo libro, La senti questa voce? Corpo, ascolto e respiro nella meditazione biblica (Claudiana ed.), che getta una nuova luce su questa fondamentale pratica spirituale. «Tutto è partito da un’esperienza fatta sull’isola di Djerba, in Tunisia», racconta l’autore. «Lì, alcuni membri dell’antica comunità ebraica locale riuniti nella loro sinagoga stavano leggendo il testo biblico con una tale intensità, in uno stato di concentrazione totale, come se fossero assorbiti completamente dalle parole che stavano mormorando, al punto da sembrare la personificazione del Salmo uno che dice: “Beato colui il cui diletto è nella Legge del Signore”.

Infatti era proprio uno stato di calma beatitudine quello che traspariva dai volti di quegli anziani ebrei e quello che stavano facendo aveva tutte le caratteristiche di una pratica meditativa».

Un rabbino legge la Torah nella sinagoga dell’isola
Djerba (Tunisia). Un rabbino legge la Torah nella sinagoga dell’isola.

Inevitabilmente però Comolli non poté fare a meno di constatare quanto il loro atteggiamento fosse diverso da quello dei maestri di meditazione orientali, a lui ben noti per via della sua lunga consuetudine professionale con quel tipo di tradizioni spirituali. Che aspetto ha un maestro zen o theravada (termina che significa vecchio, autorevole) che medita? Nella maggior parte dei casi sta in silenzio a occhi chiusi, immobile, in uno stato di raccoglimento silenzioso prolungato, ma nel frattempo è estremamente vigile e calmo, però di una calma diversa da quella che trasmettevano gli ebrei visti a Djerba.

Così l’autore si è posto l’obiettivo di individuare le somiglianze e le differenze fra questi due diversi mondi spirituali, il tutto intrecciato con il tema della contemplazione della natura, altro argomento da lui ampiamente approfondito.

Come definire la meditazione
La prima questione che Comolli ha dovuto affrontare è stata quella di trovare una definizione di meditazione che potesse adattarsi sia alla tradizione ebraico-cristiana che a quelle orientali. «La meditazione è la concentrazione psico-fisica guidata su un unico tema, quale che esso sia. Bisogna quindi essere totalmente compresi in quello che si sta facendo in quel momento, non soltanto con la testa ma con tutto il proprio essere.

Un monaco della tradizione Theravada in meditazione
Un monaco della tradizione Theravada in meditazione

«La meditazione inoltre deve essere guidata, nel senso che ci può essere un maestro che conduce una seduta e che quindi ci guida, anche se si può meditare anche da soli, spiega l’autore, ma secondo un percorso da seguire, non ci si può abbandonare a quello che passa per la testa. Questo percorso porta a concentrarsi sull’oggetto della meditazione, che è uno solo, per lo meno in quel momento: nella meditazione biblica è appunto la Scrittura, la Torah, non tutta ma, di volta in volta, un versetto o un breve brano. Nelle tradizioni cinesi invece, si può meditare per esempio di fronte a un ramo di bambù, contemplandolo fino quasi a diventare tutt’uno col bambù che si ha davanti, oppure, ed è la scelta più ricorrente, oltre che quella con cui in genere si inizia, si può meditare su qualcosa che fa parte della propria interiorità, in particolare il respiro, diventandone consapevoli e rimanendo concentrati su di esso. Se ci si distrae non importa, con calma si riporta la mente sul respiro».

Punti in comune
Secondo Comolli quindi, quale che sia il tipo di tradizione spirituale o di pratica meditativa a cui si fa riferimento, ritroviamo sempre la concentrazione psicofisica guidata su unico tema o un unico oggetto. Fra gli altri aspetti che ricorrono, anche se in modo non così sistematico, c’è l’immobilità, infatti quando si medita in genere si sta fermi. Esiste anche la meditazione camminata, oppure in lieve movimento, come nel caso degli ebrei che oscillano lentamente mentre leggono il testo, però queste sono varianti rispetto all’impostazione principale, che è quella dell’immobilità.

Di pari passo si persegue la compostezza, nel senso che quando si medita in genere si deve avere una posizione armoniosa, equilibrata, una posizione che possa essere tenuta a lungo senza sforzo, perché non ci devono essere tensioni. Qualora dovesse insorgere una tensione muscolare, bisogna imparare a prenderne coscienza e poi a rilasciarla.

Ebrei in preghiera durante una funzione
Ebrei in preghiera durante una funzione

«Il silenzio è un’altra ricorrenza, ma c’è silenzio e silenzio», specifica Comolli. «I meditanti ebrei non stanno completamente zitti, infatti mormorano, oppure anche nella tradizione yoga si può meditare pronunciando un mantra. Però c’è uno stato silenzioso che ritroviamo comunque: si deve fare silenzio dentro di sé, liberando la mente da quell’eccesso di discorsi interiori teniamo usualmente con noi stessi.

Questa richiesta la ritroviamo in tutte le pratiche meditative, poiché è un presupposto essenziale per aprirsi a un’altra voce, come può essere quella del testo biblico, o per aprirsi a un’immagine, un oggetto che troviamo di fronte a noi, oppure per essere totalmente presi dall’osservazione del nostro respiro o di un’altra parte del nostro corpo».

pranayama yogaAnche l’attenzione nei confronti del respiro lo troviamo in tutte le pratiche meditative. Perché? «Perché il respiro è quella dimensione del nostro essere su cui possiamo avere un minimo di controllo: lo possiamo modificare se vogliamo, a differenza del battitocardiaco che è molto più difficile da controllare. Il respiro mette in connessione il mondo esterno con il nostro mondo interno e osservarlo fa sì che la nostra mente, proprio attraverso il respiro, possa osservare la nostra interiorità, il nostro essere qui e ora, il nostro essere in vita. Non è possibile meditare se non passando attraverso il respiro, per questo lo troviamo in tutte le tradizioni religiose, con in più alcune varianti: attraverso la recitazione dei mantra, per esempio, che sono come una respirazione cosmica, si può vibrare con la vibrazione del mantra stesso, fino al punto da dissolversi in essa.

Oppure, nel caso del testo biblico, si deve riuscire a percepire che la Scrittura ha un suo ritmo di respirazione, e che bisogna saperlo fare proprio, si deve cioè imparare a respirare così come respira quel brano biblico. Essenziale per tutte le tradizioni spirituali anche la concentrazione sul momento presente.

Meditare vuol dire diventare totalmente consapevoli del qui e ora, così da entrare in uno stato di dilatazione del tempo presente che diventa un tempo totale, come se non ci fosse più nient’altro che presente».

Differenze
Tanti paralleli dunque fra la tradizione ebraico-cristiana e le forme di meditazione orientale, ma anche tante differenze, spiega Comolli, e pure quelle significative. Anzitutto, la gestione del silenzio cambia notevolmente: nella tradizione biblica si fa silenzio per mettersi in ascolto profondo di una parola contenuta in un testo, che è Parola di Dio, una Parola assoluta.

Nella tradizione buddhista, e più in generale nelle tradizioni orientali, bisogna lasciarsi tutte le parole alle spalle per entrare nel silenzio, un silenzio assoluto. “Questo perché il Buddha insegna che tutto è sofferenza, tutto è caduco, tutto ciò che noi possediamo che ci dà felicità, o che crediamo ci possa dare felicità, è destinato a svanire, a sfuggirci dalle mani, ma c’è una via per uscire, per liberarci da questa sofferenza, poiché esiste qualcosa di permanente, di stabile, di incondizionato, che lui chiama il Nirvana».

Il Nirvana
Che cos’è il Nirvana? «Non lo si riesce a definire se non per allusioni», risponde Comolli. «E’ pace, quiete, silenzio, ma anche consapevolezza, vigilanza, comprensione profonda non condizionata, poiché il Nirvana è fuori dal linguaggio. La parola invece è per sua essenza condizionata da tutte le parole con cui è concatenata: ogni parola è un intreccio di relazioni il cui senso si costruisce nel tempo, ma il tempo è caducità, e quindi sofferenza.

Un dipinto che illustra la via per raggiungere il Nirvana
Un dipinto che illustra la via per raggiungere il Nirvana

Il Nirvana è fuori dal tempo, è permanente, stabile, e lo è perché è puro silenzio, è fuori dal linguaggio, e fuori dal linguaggio si può andare, dice il Buddha, come insegna attraverso l’ottuplice sentiero, attraverso la via principe della meditazione. Questa uscita dal linguaggio però non deve essere anche un’uscita dal pensiero, dalla coscienza, dalla consapevolezza, anzi, si diventa ancora più consapevoli. Il Nirvana è consapevolezza estrema, altissima, pura, fuori dal linguaggio, nella pace, nella quiete. Quindi per il buddhismo il silenzio ha una valenza profondamente diversa da quella che troviamo nella tradizione ebraico-cristiana: anche lì devi mettere a tacere i tuoi pensieri, ma per porti in ascolto profondo di una Parola pura, di una Parola senza scorie.

Tutte le nostre parole sono contaminate, sono parole spesso usurate, inflazionate, ambigue, doppie. La Parola di Dio la devi sentir risuonare dentro al testo biblico che non è puro, è a sua volta contaminato da tanti condizionamenti culturali, da tante tradizioni, però lì dentro c’è l’eco della Parola pura di Dio, e quello è l’Assoluto di cui ti devi mettere in ascolto».

Questo comporta anche una diversissima gestione della temporalità fra mondo ebraico-cristiano e mondo buddhista, aggiunge Comolli, perché il testo biblico invita a ricordare le meraviglie dei tempi antichi, quello che Dio ha fatto per Israele in passato, la liberazione dalla schiavitù d’Egitto, trascinandoci così indietro nel tempo. Ma perché bisogna ricordare quello che Dio ha fatto?

«Perché quello che è successo nel passato potrebbe ripetersi nel futuro, e quindi eccoci proiettati in avanti verso la speranza, verso l’attesa, cosa che ritroviamo anche nel Nuovo Testamento, nelle parole che Gesù ha pronunciato durante l’ultima quando, dopo aver spezzato il pane, dice agli Apostoli: “fate questo in memoria di me”, cioè per ricordare quello che Gesù ha fatto un tempo, in attesa del suo ritorno: ecco così che il memoriale si apre al futuro. Questa la grande differenza nella gestione del tempo: per la tradizione buddhista è tutto nel presente, mentre per la tradizione ebraico-cristiana questo immergersi nel presente, in ascolto però della Parola di Dio, porta verso il passato e contemporaneamente verso il futuro».

Il sermone del fiore
Il sermone del fioreC’è anche la questione del linguaggio: che ne facciamo delle parole? Per spiegare la visione buddhista della faccenda, Comolli ricorre al famoso sermone del fiore, che sarebbe all’origine della tradizione zen: si racconta che il Buddha un giorno si trovasse coi suoi discepoli sul Picco dell’Avvoltoio, dove doveva tenere un discorso, ma invece di parlare prende un fiore, lo guarda e lo mostra in silenzio. Tutti i monaci sono disorientati tranne uno, un certo Mahakasyapa, che risponde al Buddha con un sorriso: è l’unico che ha capito la verità che il Buddha stava trasmettendo in quel momento.

Mahakasyapa diventerà poi il capostipite della tradizione zen. Che cosa voleva dire il Buddha? «Che tu puoi diventare totalmente consapevole di questo fiore che si mostra qui in questo momento nel suo essere senza dire una parola. Tu lasci che questo fiore si mostri nella sua immediatezza, nella sua essenza, nella sua purezza senza dire né agli altri – ma neanche a te stesso – quello che ciascuno di noi direbbe, e cioè: “questo è un fiore”. Il Buddha mostra il fiore senza accompagnare questo gesto di ostensione con la parola “fiore”, e quindi depura il fiore dal nome con cui abitualmente fa tutt’uno.

Questo significa che a quel punto non c’è più nemmeno un fiore, c’è un puro mostrarsi, un puro farsi avanti e c’è la nostra pura attenzione che in totale silenzio accoglie questo puro mostrarsi fino a fare tutt’uno con esso, per cui si arriva a una sintesi estrema fra il soggetto che guarda, l’oggetto che si fa guardare e l’atto di percezione. Questi tre momenti vengono a fare tutt’uno, per cui non ci sei neanche più tu che guardi il fiore, non c’è più nemmeno il fiore, c’è uno svanire totale, un riassorbimento completo dentro il Nirvana, in una consapevolezza assoluta che si manifesta attraverso il sorriso silenzioso».

Questo è quello che ha insegnato il Buddha nel famoso sermone del fiore, cioè la possibilità di mantenersi vigili, attenti, in uno stato di pura attenzione, nel puro momento presente in cui, senza più dir nulla, i nomi del mondo spariscono, sparisce la tua identità, e quindi anche la differenza fra te e il fiore, fra te e gli altri che sono attorno, ed entri in questo stato onnicomprensivo, quieto, beato e luminoso del Nirvana. «E’ difficile ma si può fare», assicura Comolli. «I rudimenti li possiamo praticare tutti, nel senso che ognuno di noi può mettersi davanti a un tavolo, prendere un fiore, guardare questo fiore, e stare lì a lungo senza dirsi niente, senza dire neanche: “sto guardando questo fiore”, lasciando semplicemente che il fiore si mostri. Se lo si fa con una certa costanza, che sia un fiore o altro, la nostra percezione aumenta, e si può avere l’impressione che questo fiore ci si faccia più vicino, in silenzio, come se volesse porgerci un messaggio, poi ci può sentire come avvolti da questa percezione del fiore».

Dare il nome secondo la Bibbia
Troviamo qualcosa di questo genere nella tradizione biblica? Questo togliere il nome affinché le cose si manifestino nel loro silenzio, nel loro puro mostrarsi? Secondo Comolli no, anzi, troviamo l’opposto, cioè la pratica ricorrente del dare un nome alle cose e alle persone affinché esse possano venire alla vita e vivere bene, distinte le une dalle altre.

Il giardino dell’Eden
Roelandt Jacobsz Savery “Il giardino dell’Eden”

«I primissimi capitoli della Genesi descrivono il procedimento di creazione adottato da Dio, che procede per distinzione: prima c’è una grande confusione, poi inizia a separare la luce dalle tenebre, il giorno dalla notte, le acque dalla terra e così via. Dopo che il mondo è stato creato, Dio invita Adamo a dare un nome a ciascun animale: di fronte a lui c’è una folla indistinta di esseri viventi che si confondono l’uno con l’altro perché non hanno ancora un nome, e il darglielo fa sì che esistano nella loro identità.

Quindi nella Bibbia troviamo il procedimento opposto a quello messo in atto dal Buddha, che è quello di togliere il nome. Qui invece il nome viene dato, e viene dato affinché Adamo si possa relazionare con gli animali e poi anche con Eva». Questo procedimento del dare il nome lo vediamo ricorrere tantissime volte nella Scrittura biblica: quando Mosè, cacciato dall’Egitto, vaga nel deserto profondo, sente risuonare la parola di Dio, e la prima cosa che fa Dio è quella di chiamarlo per nome, quindi gli dà un’identità.

L’annunciazione
“L’annunciazione” del Beato Angelico

Ritroviamo questa importanza del nome anche nel Nuovo Testamento quando nel Vangelo di Luca l’angelo annuncia a Maria che concepirà un figlio, le dice subito come lo dovrà chiamare. Dare il nome significa permettere di esistere. A volte si trova nella Bibbia non solo l’essere chiamati per nome, ma anche il farsi cambiare il nome, a significare l’assunzione di una nuova identità. Un’altra evidenza dell’importanza che nella Bibbia ha il procedimento di attribuire un nome la troviamo nel primo libro dei Re, dove si parla di Salomone, figlio di Davide che aveva chiesto come dono a Dio non il potere, non la forza, bensì la saggezza.

Ed ecco come si manifestava questa saggezza: Salomone aveva i nomi per tutte le cose, aveva la capacità di saper definire ogni cosa affinché questa potesse entrare in relazione con altre cose e con le persone.

Diventare portatori di una parola nuova
«Per presentarsi come Salvatore del mondo Gesù dice: “Io sono il buon pastore, io sono la via, la resurrezione e la vita, chiunque crede in me avrà la vita eterna e non morirà mai”: dire agli altri chi è lui, permette di salvare gli altri. Ecco allora che il nome, la parola nuova diventa portatrice di salvezza, ed ecco perché il Vangelo si manifesta, per chi accoglie questa Parola, come possibilità di diventare a propria volta portatore di una parola nuova. Quando Gesù appare a Maria Maddalena subito dopo la resurrezione, la Maddalena non lo riconosce, fino a quando quando Gesù la chiama per nome.

COPERTINA-LIBRO-COMOLLI-240x400A quel punto lei, avendo ricevuto un nome, il suo nome, riconosce Gesù, può entrare in relazione, però la gioia è tale che gli si attacca, lo vorrebbe abbracciare, ma Gesù la manda ad annunciare agli apostoli che è vivo e che li precede in Galilea, quindi le dà anche un compito, una missione e le dà la possibilità di diventare annunciatrice di un discorso nuovo, portatrice di una parola nuova». Questo è il procedimento che troviamo nel testo biblico, conclude Comolli, questo invito a riscoprire la forza delle parole attraverso una pratica di ascolto profondo del testo, di meditazione profonda, che ti fa immergere nel silenzio, ti fa immergere nel qui e ora, ti fa assorbire profondamente il testo per poter dare poi un corso nuovo al trascorrere del tempo e un corso nuovo al linguaggio, alle parole.

«Tu a quel punto non sei più prigioniero dei tuoi discorsi che ti hanno sempre assillato con le tue frustrazioni, le tue angosce, le tue incertezze, ma diventi portatore di una parola nuova che è tua perché comunque sei tu che devi parlare, non è Gesù che parla al posto tuo, anzi Gesù manda proprio te, quindi sei tu che con le tue parole, con la tua voce dovrai annunciare il discorso che Gesù ti ha inviato a fare, così diventi scopritore di una possibilità nuova del linguaggio che prima non avevi, e acquisisci un linguaggio nuovo.

Viceversa per il mondo della tradizione buddhista il percorso è un altro. Anche lì ovviamente ci sono storie, parabole, aneddoti, discorsi infiniti. I sutra sono tantissimi, il canone buddhista è sterminato, il Buddha ha tenuto tantissimi discorsi, ma poi in realtà quello che ti dà è la possibilità di tacere, di scoprire quanto quello che la tradizione buddhista chiama “il nobile silenzio” sia appunto quello che ti porta verso la liberazione dal dolore».

Lucia Carleschi

karmanews.it