Secondo alcuni studi le cellule possono collegarsi tra loro grazie a tubuli, cioè strutture attraverso cui possono passare molecole e segnali. Questa ipotesi divide la comunità dei biologi, ma secondo i sostenitori può spiegare la rapida diffusione nell’organismo di virus come l’HIV o le malattie da prioni, e in futuro potrebbe essere utile per strategie terapeutiche.
Yukiko Yamashita pensava di sapere tutto sul testicolo del moscerino della frutta. Ma quando effettuò una serie di esperimenti sull’organo cinque anni fa, rimase sconcertata.
Il suo gruppo stava studiando come i moscerini della frutta mantengono la loro riserva di spermatozoi e aveva ingegnerizzato alcune cellule coinvolte nel processo per produrre specifici insiemi di proteine. Ma invece di essere presenti nelle cellule modificate, alcune proteine sembravano essere state teletrasportate in un gruppo di cellule diverso.
Yamashita, biologa dello sviluppo dell’Università del Michigan ad Ann Arbor, e il ricercatore con cui lavorava, Mayu Inaba, definirono il fenomeno “traffico misterioso”. Erano convinti che fosse reale, ma non riuscivano a capire in che modo si verificasse. Così sospesero il progetto finché un giorno, più di un anno dopo, Inaba si presentò da Yamashita con immagini di piccoli tubuli che si estendevano da una cellula all’altra; delicate strutture sembravano poter essere responsabili del traffico. Yamashita era scettica, ma decise di tirare fuori alcune immagini dal proprio progetto di post dottorato di 12 anni prima. In effetti, si vedevano spuntare piccole protuberanze dirette verso le cellule bersaglio. “Finalmente mi si aprirono gli occhi”, dice Yamashita. Il gruppo pubblicò il lavoro nel 2015, sostenendo che i tubuli permettono alle cellule dei testicoli di comunicare con precisione, inviando messaggi ad alcune delle loro vicine e non ad altre. “Pensavamo che la proteina venisse trasferita – spiega Yamashita – ma non pensavamo che ci fosse un vero percorso”.
I tubuli di Yamashita fanno parte di un insieme sempre più ampio di misteriose condutture tra cellule. I tubuli più lunghi, osservati nelle cellule di mammiferi, sembrano trasportare non solo segnali molecolari ma carichi molto più grandi, come particelle virali, prioni o addirittura mitocondri, le strutture che nelle cellule generano energia. Queste osservazioni suggeriscono l’esistenza di un imprevisto livello di connettività tra le cellule, dice Amin Rustom, neurobiologo dell’Università di Heidelberg, in Germania, che per primo individuò questi tubuli quand’era studente universitario, quasi vent’anni fa. Se l’idea fosse corretta, dice, “cambierebbe tutto nelle applicazioni mediche e in biologia, perché trasformerebbe il nostro modo di vedere i tessuti”.
Ma Richard Cheney, biologo cellulare dell’Università della North Carolina a Chapel Hill, non è pronto a rivedere i libri di testo. Cheney ha seguito questo ambito di studi e a un certo punto ha collaborato con il tutor di PhD di Rustom. Non c’è dubbio che protrusioni lunghe e sottili stiano spuntando dappertutto, dice. Ma la domanda è: che cosa stanno facendo? Stanno inviando semplici messaggi quando le cellule si allungano e si toccano, o stanno aprendo una breccia per facilitare il “trasporto all’ingrosso”? “Forse scommetterei sulle segnalazioni per contatto, in cui non c’è bisogno di molte copie di una molecola, a differenza del caso in cui i tubuli si comportano come autostrade”, spiega.
Il problema di scommettere sull’una o sull’altra ipotesi è che questi piccoli tubuli sono difficili da studiare. Affermare semplicemente che esistono è abbastanza arduo, ma lo è di più sostenere che abbiano una funzione reale. Yamashita ha usato metodi d’ingegneria genetica collaudati e testati, e geni del moscerino della frutta ben caratterizzati per sostenere che i suoi tubuli stessero inviando segnali per contatto diretto. Ma i ricercatori che cercano tubuli nelle cellule dei mammiferi non hanno queste risorse. Più di un ricercatore è stato accusato di scambiare un graffio su una piastra di Petri per un nanotubulo prodotto da cellule. Le prove derivate da un vero tessuto di mammifero sono ancora più scarse.
Ciononostante, di recente si è registrato un certo interesse per i tubuli. Uno che ci crede è George Okafo, direttore delle piattaforme emergenti dell’azienda farmaceutica GlaxoSmithKline (GSK) di Stevenage, nel Regno Unito. Okafo ritiene che le protuberanze da cellula a cellula potrebbero spiegare perché le malattie come Alzheimer, Parkinson e malaria, così come l’HIV e le infezioni da prioni, siano tanto difficili da curare (si veda questa infografica). “C’è una caratteristica che non è considerata come bersaglio da molte terapie convenzionali, ed è il modo in cui una malattia si diffonde da cellula a cellula.”
Lo scorso settembre, Okafo ha organizzato una conferenza a inviti per riunire lo staff di GSK e circa 40 ricercatori del settore (in questo momento collabora con alcuni di loro). A marzo di quest’anno, i National Institutes of Health degli Stati Uniti hanno chiesto a gruppi che studiano come comunicano gli organelli in cellule tumorali o in condizioni di stress di fare richiesta di finanziamento, un’iniziativa che entusiasma gli appassionati dei tubuli. E a dicembre, l’American Society for Cell Biology ospiterà una sessione dedicata all’argomento nel suo meeting annuale.
Un lungo insieme di canali
Gli scienziati sanno che alcune cellule producono estensioni filiformi come una sorta di sostegno temporaneo per spostarsi da un posto all’altro. La prima importante indicazione che queste estensioni potrebbero essere coinvolte in qualcosa di più complesso arrivò nel 1999, grazie al biologo cellulare Thomas Kornberg dell’Università della California a San Francisco. Lo scienziato stava osservando lo sviluppo delle ali in larve di moscerino, e notò un mare di filamenti che si proiettavano dalle strutture da cui si poi si sarebbero formate le ali verso il centro di segnalazione essenziale per la loro crescita. Kornberg coniò il termine citonemi, o filamenti cellulari, per descrivere questi filamenti. Inoltre suggerì che alcune comunicazioni cellulari che si pensava avvenissero per diffusione in realtà potrebbero essere orchestrate da citonemi. L’idea era sorprendente e difficile da digerire, ma ora sta entrando nei libri di testo.
Nel 2004 due gruppi di ricerca pubblicarono separatamente osservazioni di qualcosa di ancora più radicale: nanotubi in cellule di mammiferi che sembravano spostare carichi, come organuli e vescicole, avanti e indietro. Rustom individuò tubuli sottili e rettilinei che collegavano le cellule di ratto in coltura dopo aver omesso un passo di lavaggio in un esperimento. Con il suo tutor dell’Università di Heidelberg, Hans-Hermann Gerdes, ingegnerizzarono le cellule in modo che producessero proteine fluorescenti e osservarono che le molecole scorrevano da una cellula all’altra. La loro osservazione accidentale diventò un articolo pubblicato su “Science” che descriveva le strutture come “autostrade nanotubolari”. (Alcuni scettici pensano che Gerdes abbia scelto il termine nanotubo per sfruttare i nanotubi di carbonio, un argomento in voga nella scienza dei materiali.)
Nello stesso anno, Daniel Davis e il suo gruppo all’Imperial College London descrissero reti di “nanotubi di membrane”, filamenti della membrana esterna delle cellule che si estendevano per diverse lunghezze cellulari in modo da collegare diversi tipi di cellule immunitarie; i lipidi prodotti da una cellula comparivano sulla superficie di un’altra. Davis attribuisce la loro scoperta alla volontà del suo gruppo di analizzare a fondo le implicazioni della loro osservazione. “La cosa cruciale non è che li abbiamo visti”, dice. “La cosa cruciale è decidere su che cosa scavare e indagare.” Il suo gruppo continuò a descrivere differenti tipi di nanotubi, alcuni dei quali contenenti vescicole e mitocondri e altri con batteri che scorrevano sull’involucro.
Nel frattempo, altri laboratori hanno annunciato di aver osservato tubuli di collegamento cellulare in neuroni, cellule epiteliali, cellule staminali mesenchimali, in diversi tipi di cellule immunitarie e in diversi tumori. Sono stati osservati anche altri tipi di tubuli. Nel 2010, Gerdes e il suo gruppo hanno riferito che alcuni tubuli terminano nelle giunzioni comunicanti (gap junction), che conferiscono ai neuroni la capacità d’inviare segnali elettrici e che possono anche trasferire peptidi e molecole di RNA. Yamashita argomenta che queste connessioni potrebbero essere più che concettualmente correlate alla sinapsi neuronale. “Le protrusioni delle membrane potrebbero essersi evolute per prime e gli organismi superiori potrebbero aver iniziato ad aggiornarle per ottenere neuroni adatti a funzioni più complicate”, afferma.
La maggior parte dei ricercatori che studiano questi canali cellulari si preoccupa meno della loro origine evolutiva e più della loro influenza sulla salute e sulle malattie degli esseri umani. La prova più stringente di un loro coinvolgimento patogenetico è arrivata nel 2015, grazie a un altro gruppo dell’Università di Heidelberg, guidato dal ricercatore oncologo Frank Winkler. Come altri, il suo gruppo non aveva intenzione di studiare le protuberanze delle cellule; voleva invece testare un sistema per osservare la crescita dei gliomi umani. Cellule derivate da tumori erano state iniettate nel cervello di topi e per poterle osservare, sul cranio dei roditori era stata posizionata una minuscola finestra di vetro temperato sigillata con cemento dentale.
Durante l’invasione, le cellule tumorali producevano protuberanze tubolari davanti a loro. Uno sguardo più da vicino mostrò molti tubuli che collegavano le cellule attraverso le giunzioni comunicanti. Le cellule interconnesse erano riuscite a sopravvivere a dosi di radiazioni che uccidevano cellule isolate, apparentemente perché le giunzioni comunicanti contribuivano a distribuire alle cellule vicine il carico di ioni tossici. Quando le radiazioni uccidevano le cellule tumorali collegate, a volte i nuclei di quelle cellule passavano in un tubulo che poi si espandeva nello spazio lasciato libero per formare una nuova cellula cancerosa vigorosa. Questi “microtubuli tumorali” sono stati scoperti anche in biopsie di pazienti, e i tubuli più densi e più lunghi sono risultati correlati a forme più resistenti di cancro e una prognosi più infausta. Winkler ritiene che un farmaco in grado di inibire la formazione o lo sviluppo di questi tubuli potrebbe creare una nuova classe di trattamenti per il cancro; anzi, ipotizza che alcuni farmaci già disponibili contro il cancro, come il paclitaxel, funzionino distruggendo i microtubuli del tumore. Il gruppo di Winkler ha presentato una domanda di brevetto per un composto che interferisce con microtubuli, che potrebbe essere un trattamento per il glioma.
L’articolo ha colpito l’immaginazione di molti. “Era una lavoro pionieristico”, dice Okafo. “Prima c’era ancora qualche scetticismo sulla possibilità che questi fenomeni esistessero in vivo”. Ma non è chiaro se i risultati di Winkler si possano applicare anche ad altri scenari. È noto che molti tipi di cellule cerebrali producono protuberanze mentre crescono e proliferano. I tubuli descritti dal gruppo di Winkler sono molto più grandi dei “nanotubi di tunnelling” descritti in origine da Gerdes e, a differenza dei nanotubi di tunnelling più noti finora osservati, contengono microtubuli, filamenti che spostano componenti all’interno delle cellule. Tuttavia, Winkler ritiene che il suo lavoro fornisca prove di un ampio ruolo delle strutture simili ai nanotubi di tunnelling. Ritiene che in coltura potrebbero non essere in grado di raggiungere la dimensione piena, e i tubuli che osserva variano notevolmente in lunghezza e spessore. Winkler ricorda di aver discusso il suo lavoro con Gerdes prima della scomparsa di Gerdes nel 2013. “Disse che questo era ciò che il settore aspettava da tempo; era la prova che pensava di poter trovare”.
I tubuli sono sempre più considerati anche in altri settori. Eliseo Eugenin, che studia l’HIV alla Rutgers New Jersey Medical School a Newark, suggerisce che le cellule infettate da HIV producano molteplici nanotubi pieni di virus per raggiungere le cellule non infette. La circolazione e il contatto cellulare “uno a uno” sarebbero troppo inefficienti per poter causare la rapida diffusione del virus osservata nei pazienti appena infettati. “I conti non tornano”, spiega. E pensa che altri ricercatori siano scettici sui nanotubi perché non accettano l’idea che le cellule scambino costantemente materiali e informazioni genetiche. “La nostra definizione di cellula sta andando in pezzi”, dice Eugenin. “Ecco perché le persone non credono in questi tubuli, perché implica dover cambiare la definizione di cellula”.
Linee di battaglia
Quando è in gioco la definizione di cellula, c’è poco da stupirsi che lo scetticismo sia ancora forte. Emil Lou, ricercatore oncologo dell’Università del Minnesota a Minneapolis, afferma che la sua richiesta di fondi per la ricerca e la caratterizzazione dei nanotubi nei tumori umani è stata ridicolizzata perché un revisore non era convinto dell’esistenza delle strutture. Altri sostengono che esistono, ma solo nel mondo rarefatto della piastra di Petri. Michael Dustin, immunologo dell’Università di Oxford, nel Regno Unito, dice di aver osservato cellule in piastre formare strutture che non si formerebbero mai nel tessuto denso di un organismo. Per esempio, i globuli bianchi preparati in vitro per produrre anticorpi danno vita a uno schema a occhio di bue “meravigliosamente simmetrico”, molto diverso dal caos e dall’asimmetria che si osservano nel corpo.
Poi ci sono cavilli dal punto di vista meccanico: alcuni ricercatori ritengono che i tubuli siano aperti a entrambe le estremità, con carichi che viaggiano dentro e fuori. Ma ciò determinerebbe un rimescolamento del citoplasma e provocherebbe la fusione delle cellule, afferma Jennifer Lippincott-Schwartz, biologa cellulare allo Howard Hughes Medical Institute Janelia Research Campus di Ashburn, in Virginia. “Le persone che pensano che ci sia una connessione devono parlare con qualche biofisico”, dice. Lei invece pensa che i tubuli di membrana potrebbero protendersi e produrre un minimo contatto, sufficiente per consentire alle cellule riceventi di raggiungere e fagocitare il contenuto del tubulo.
Questi dissidi potrebbero contribuire alla mancanza di rigore nel settore. Chiara Zurzolo, biologa cellulare dell’Institut Pasteur di Parigi, che ha scoperto prioni e altre proteine neurodegenerative che si spostano attraverso nanotubi, sostiene che molti articoli, per esempio, non tentano di valutare se un tubulo sia chiuso o aperto, e neppure se i tubuli permettano il movimento di vescicole o materiale simile. La proliferazione dei tipi di tubuli e i loro diversi nomi rendono difficile una discussione coerente. “Dobbiamo essere rigorosi sui nomi da dare a queste strutture: al momento c’è molta confusione”, sottolinea.
Ma ottenere immagini chiare delle cellule viventi supererà sempre la semantica, afferma Ian Smith, biologo cellulare dell’Università della California a Irvine. “Quello che è veramente necessario nel settore è la visualizzazione diretta di questo processo”, dice. La maggior parte delle tecniche di microscopia non può avere una visione chiara di queste strutture in azione, neanche nelle cellule in coltura. Smith sta sviluppando metodi per visualizzare i nanotubi di membrana usando la microscopia a fogli di luce reticolari, che controlla i piani di luce per realizzare immagini 3D. Spera che la tecnica sarà in grado di cogliere dall’inizio alla fine il processo di trasferimento del materiale da una cellula all’altra. Smith è consapevole che si sta giocando la carriera: un collega lo ha recentemente messo in guardia da quest’area di ricerca “bizzarra”. Ma la prende come una sfida.
Lou è incoraggiato dal fatto che la critica contro i tubuli di membrana sia cambiata. Ricorda che all’inizio si sentiva dire che le strutture erano artefatti o illusioni ottiche. “Poi si è passati a ‘beh, solo perché crescono in una piastra non significa che abbiano qualcosa a che fare con la biologia’”, e poi è stata la volta di ‘beh, probabilmente stai identificando o caratterizzando erroneamente queste cose'”. Apprezza che ci sia questa tendenza. “Penso che dobbiamo prenderlo sul serio come obiettivo terapeutico. Non avrei potuto dire lo stesso cinque anni fa”.
(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su Nature il 20 settembre 2017. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)
Monya Baker/Nature