Malgrado secoli di discussioni, esperimenti, riflessioni e progressi scientifici, nessuna delle definizioni di “vita” proposte finora riesce a discriminare in modo netto e soddisfacente fra ciò che chiamiamo animato e ciò che consideriamo inanimato. Forse perché il vero elemento comune delle cose che definiamo vive non è una loro proprietà intrinseca, ma la nostra percezione di esse.
Sono sempre stato affascinato dalle cose viventi. Da bambino catturavo api per vederne da vicino gli occhi di ossidiana e la bionda peluria, scovavo crostacei e artropodi sulla spiaggia spiando le bolle nella sabbia e ho un ricordo tuttora molto vivido di una gita in un boschetto di eucalipti dove migliaia di farfalle monarca si erano fermate a riposare. Mentre mio fratello era fissato con le costruzioni del meccano, con cui realizzava complicati marchingegni, io volevo capire come funzionava il nostro gatto. Come vedeva il mondo? Perché faceva le fusa? Di cosa sono fatti pelliccia, artigli e baffi? Non è un caso che mi guadagni da vivere scrivendo di natura e di scienza.
Recentemente, però, ho avuto un’epifania che mi ha costretto a ripensare perché amo così tanto le cose viventi e a riesaminare che cos’è davvero la vita. Le persone che hanno studiato la vita hanno sempre lottato per definirla. Ancora oggi non ne esiste una definizione soddisfacente o universalmente accettata. Mentre riflettevo su questo, mi sono ricordato della passione di mio fratello per il meccano e della mia curiosità per il gatto.
Perché pensiamo al primo come inanimato e al secondo come vivo? In ultima analisi, non sono entrambi macchine? Certo, un gatto è una macchina incredibilmente complessa capace di comportamenti incredibili che un insieme pezzi del meccano non potrebbe mai imitare. Ma a un livello più fondamentale, qual è la differenza tra una macchina inanimata e una vivente? Persone, gatti, piante e altre creature appartengono a una categoria, e meccano, computer, stelle e rocce a un’altra? La mia conclusione è “no”.
In realtà, ho deciso, la vita non esiste.
Lasciatemi spiegare. I tentativi di definire con precisione la vita risalgono almeno ai filosofi greci. Aristotele credeva che, a differenza di quelle inanimate, tutte le cose viventi avessero tre tipi di anima: vegetativa, animale e razionale, quest’ultima esclusiva degli esseri umani. Galeno propose un sistema simile basato sugli organi, con “spiriti vitali” nei polmoni, nel sangue e nel sistema nervoso. Nel XVII secolo, il chimico tedesco George Erns Stahl e altri iniziarono a definire una dottrina che divenne poi nota come vitalismo.
I vitalisti sostenevano che “gli organismi viventi sono fondamentalmente diversi dalle entità non viventi perché contengono elementi non fisici o sono governati da principi diversi”, e che la materia organica (molecole che contengono carbonio e idrogeno e sono state prodotte da esseri viventi) non poteva derivare dalla materia inorganica (molecole prive di carbonio derivate soprattutto da processi geologici). Esperimenti successivi hanno rivelato che il vitalismo è completamente falso: l’inorganico può essere convertito in organico sia all’interno che all’esterno di un laboratorio.
Altri scienziati hanno cercato invece di identificare un insieme specifico di proprietà fisiche che differenziano la vita dal non vivente. Oggi, al posto di una definizione succinta della vita, molti testi di biologia includono un elenco piuttosto ampio di queste proprietà. Per esempio: ordine (molti organismi sono costituiti da una singola cellula con diversi scomparti e organelli o da gruppi altamente strutturati di cellule); crescita e sviluppo (cambiano dimensione e forma in modo prevedibile); omeostasi (mantengono un ambiente interno diverso da quello esterno, regolando per esempio i livelli di pH e concentrazione salina); metabolismo (spendono energia per crescere e per ritardare il decadimento), reazione a stimoli (cambiano comportamento in risposta a luce, temperatura, sostanze chimiche o altri aspetti dell’ambiente); riproduzione (clonazione o accoppiamento per la produzione di nuovi organismi e trasferimento di informazioni genetiche da una generazione alla successiva), ed evoluzione (la composizione genetica di una popolazione cambia nel tempo).
E’ fin troppo facile smontare la logica di questi elenchi. Nessuno è mai riuscito a compilare una lista di proprietà fisiche che comprenda tutte le cose viventi ed escluda tutto ciò che etichettiamo inanimato: ci sono sempre delle eccezioni. Quasi nessuno considera vivi i cristalli, per esempio, eppure sono altamente organizzati e crescono. Anche il fuoco consuma energia e diventa più grande, ma non è vivo. Al contrario, i batteri, i tardigradi e anche alcuni crostacei possono passare lunghi periodi di inattività durante i quali non crescono, non metabolizzano, non si modificano in alcun modo, ma non sono tecnicamente morti.
Come possiamo classificare una singola foglia caduta da un albero? La maggior parte delle persone concorderebbe che una foglia è viva se è collegata a un albero: le sue cellule lavorano instancabilmente per trasformare la luce solare, l’anidride carbonica e l’acqua in alimento. Ma quando si stacca da un albero, le sue cellule non cessano immediatamente le loro attività. Muore quando cade, quando tocca terra oppure quando alla fine sono morte tutte le sue singole cellule? Se si stacca una foglia da una pianta e se ne alimentano le cellule in laboratorio, si tratta di vita?
Rispondere all’ambiente non è una capacità limitata agli organismi viventi: abbiamo progettato innumerevoli macchine che lo fanno. Nemmeno la riproduzione definisce un essere vivente: molti singoli animali non possono da soli: due gatti insieme sono vivi perché possono generare nuovi gatti, ma uno da solo non è vivo perché non può propagare i suoi geni? Per non parlare di Turritopsis nutricula, la medusa immortale, che può alternare a tempo indeterminato la sua forma adulta e la sua fase giovanile. Questa tremolante gelatina non si riproduce, né si clona o invecchia in modi conseuti, ma chiunque sarebbe d’accordo nel considerarla viva. E l’evoluzione? Memorizzare le informazioni in molecole come DNA e RNA, trasmettere queste informazioni alla prole e adattarsi a un ambiente che cambia alterando l’informazione genetica sono certamente capacità uniche degli esseri viventi, per cui molti biologi si sono concentrati sull’evoluzione come caratteristica distintiva fondamentale della vita. Agli inizi degli anni novanta, Gerald Joyce dello Scripps Research Institute era consulente del programma di esobiologia della NASA. Durante le discussioni sul modo migliore per trovare la vita su altri mondi, Joyce e colleghi relatori a una definizione operativa della vita ampiamente citata: un sistema in grado di autosostentarsi capace di evoluzione darwiniana.
E’ chiara, concisa e completa. Ma funziona?
Applichiamola ai virus, che hanno complicato più di ogni altra entità la ricerca di una definizione di vita. I virus sono essenzialmente filamenti di DNA o RNA impacchettati in un involucro proteico: non hanno cellule o un metabolismo, ma hanno i geni e possono evolvere. Joyce spiega che per essere un “sistema in grado di autosostentarsi”, un organismo deve contenere tutte le informazioni necessarie per riprodursi ed essere sottoposto all’evoluzione darwiniana. A causa di questo vincolo, i virus non soddisfano la definizione: per fare copie di se stesso un virus deve invadere e conquistare una cellula.
La definizione di lavoro della NASA non è in grado di affrontare l’ambiguità dei virus meglio delle altre definizioni proposte. Un verme parassita che vive nell’intestino di una persona ha tutte le informazioni genetiche necessarie per riprodursi, ma non sarebbe mai capace di farlo senza le cellule e le molecole dell’intestino da cui ruba l’energia per sopravvivere. Allo stesso modo, un virus ha le informazioni genetiche necessarie per replicarsi, ma non ha tutto il macchinario cellulare necessario. Affermare che la situazione del verme è categoricamente diversa da quella del virus è un argomento debole. Sia il verme che il virus si riproducono e si evolvono solo “nel contesto” dei loro ospiti. Quindi, se usiamo la definizione della NASA per scacciare i virus dal regno della vita, dobbiamo escludere anche tutti i tipi di parassiti più grandi, che includono cui vermi, funghi e piante.
Definire la vita come un sistema in grado di autosostentarsi capace di evoluzione darwiniana ci costringe anche ad ammettere che alcuni programmi per computer sono vivi. Gli algoritmi genetici, per esempio, imitano la selezione naturale per arrivare alla soluzione ottimale di un problema: sono matrici di bit che codificano tratti, evolvono, competono tra loro per riprodursi e si scambiano anche informazioni. Un altro colpo devastante alla definizione della NASA è arrivato proprio dal laboratorio di Joyce, che, come molti altri scienziati, propende per un’origine della storia della vita conosciuta come “ipotesi del mondo a RNA”, secondo la quale i primi organismi del pianeta si sarebbero basati unicamente sull’RNA, senza l’aiuto del DNA o di un gruppo di proteine enzimatiche.
Per verificare l’ipotesi, Joyce e altri ricercatori hanno tentato di creare i ribozimi autoreplicanti che avrebbero potuto esistere nella zuppa primordiale da cui emerse la vita sulla Terra. Insieme a Tracey Lincoln, a metà degli anni duemila Joyce ha prodotto in laboratorio migliaia di miliardi di sequenze casuali di RNA simile ai primi RNA che possono aver gareggiato fra loro miliardi di anni fa, e isolato le sequenze che, per caso, erano capaci di incollare altri due pezzi di RNA. Affiancando queste sequenze, alla fine hanno prodotto alla fine due ribozimi che potevano replicarsi a vicenda all’infinito, almeno finché vi erano nucleotidi a sufficienza. Non solo queste molecole di RNA nudo si riproducono, ma possono anche mutare ed evolvere. I ribozimi avevano alterato piccoli segmenti del loro codice genetico per adattarsi alle condizioni ambientali mutevoli, per esempio.
“Rispondono alla definizione operativa di vita”, dice Joyce. “E’ un’ evoluzione darwiniana in grado di autosostentarsi.” Ma esita a dire che i ribozimi sono davvero vivi. Vorrebbe vedere la sua creazione sviluppare un comportamento completamente nuovo, e non solo modificare qualcosa può già fare. “Ciò che penso che manchi, è che ha bisogno di inventiva, ha bisogno di trovare nuove soluzioni.” Perché definire la vita è così frustrante e difficile? Perché scienziati e filosofi hanno fallito per secoli nel trovare una proprietà fisica specifica o un insieme di proprietà che separi nettamente i vivi dagli inanimati? Perché una proprietà simile non esiste. La vita è un concetto che abbiamo inventato. Al livello più fondamentale, tutta la materia esistente è una disposizione degli atomi e delle particelle che li costituiscono. Queste disposizioni ricadono in un immenso spettro di complessità, da un singolo atomo di idrogeno a una cosa intricata come il cervello umano.
Nel tentativo di definire la vita, abbiamo tracciato una linea a un livello arbitrario di complessità e dichiarato che tutto ciò che è al di sopra di quel confine è vivo, e tutto ciò che è al di sotto non lo è. Ma questa suddivisione non esiste al di fuori della mente. Non esiste una soglia passata la quale un insieme di atomi diventa improvvisamente vivo, non c’è alcuna distinzione categorica tra i viventi e inanimati, nessuna scintilla frankensteiniana.
Non siamo riusciti a definire la vita, in primo luogo perché non c’è mai stato nulla da definire.
Ho spiegato nervosamente al telefono queste idee a Joyce, aspettandomi che avrebbe detto che erano assurde. Invece ha detto che la tesi che la vita sia solo un concetto è “perfetta”. Concorda che la missione di definire la vita è, in qualche modo, inutile. La definizione operativa era solo una comodità linguistica: “Stavamo cercando di aiutare la NASA a trovare vita extraterrestre”, dice. “Non potevamo usare la parola ‘vita’ in ogni punto e non definirla.”
Anche Carol Cleland, una filosofa dell’Università del Colorado a Boulder che ha trascorso anni a studiare i tentativi di delineare la vita, ritiene che l’impulso di definire con precisione la vita sia sbagliato, ma non è ancora pronta a negare la realtà fisica della vita. “Concludere che non vi è alcuna natura intrinseca della vita è altrettanto prematuro che definirla”, dice. “Penso che l’atteggiamento migliore sia trattare come criteri sperimentali quelli che sono normalmente considerati criteri definitori della vita.”
Ciò di cui abbiamo veramente bisogno, ha scritto la Cleland, è “una teoria della vita ben dimostrata e adeguatamente generale”. E fa un’analogia con i chimici nel XVI secolo: prima di capire che aria, sporcizia, acidi e tutte le sostanze chimiche sono fatte di molecole, non riuscivano a definire l’acqua. Ne elencarono le proprietà – è umida, trasparente, insapore, congelabile e può sciogliere molte altre sostanze – ma non è stato impossibile caratterizzarla con precisione finché non si è scoperto che è formata da due atomi di idrogeno legati a un atomo di ossigeno. Ma per avere l’equivalente della teoria molecolare per la vita, dice la Cleland, sarà necessario un campione più ampio. Sostiene che, finora, abbiamo solo l’esempio della vita sulla Terra fondata su DNA e RNA. Immaginate di provare a creare una teoria sui mammiferi osservando solo zebre. Questa è la situazione in cui ci troviamo quando cerchiamo di identificare ciò che rende vita la vita, conclude la Cleland.
Non sono d’accordo. La scoperta di vita aliena su altri pianeti amplierebbe indubbiamente la nostra comprensione di come funzionano le cose che chiamiamo organismi viventi e di come si sono evoluti, ma non potrebbe aiutarci a formulare una nuova, rivoluzionaria teoria della vita. I chimici del XVI secolo non riuscivano a trovare ciò che distingue l’acqua da altre sostanze perché non ne conoscevano la natura fondamentale: non sapevano che ogni sostanza è fatta di una specifica disposizione molecolare. Al contrario, oggi sappiamo esattamente di che cosa sono fatte le creature del nostro pianeta: cellule, proteine, DNA e RNA.
Ciò che differenzia le molecole di acqua e le rocce dai gatti e dalle persone non è la “vita”, ma la complessità. Abbiamo già conoscenze sufficienti a spiegare perché quelli che abbiamo chiamato organismi viventi possono fare, in generale, cose che la maggior parte di ciò che chiamiamo inanimato non può senza proclamare che la vita è questo e la non-vita quello e che le due cose nion si incrociano mai. Riconoscere che la vita è un concetto non deruba del suo splendore ciò che noi chiamiamo vita. Non è che non ci siano differenze sostanziali tra esseri viventi e oggetti inanimati; piuttosto, non troveremo mai una linea di demarcazione netta tra i due perché i concetti di vita e non-vita come categorie distinte sono proprio questo: concetti, non realtà. Penso che ciò che accomuna veramente le cose che definiamo vive non è una loro proprietà intrinseca, ma la nostra percezione di esse, il nostro amore per loro e, francamente, la nostra arroganza e il nostro narcisismo.
Prima abbiamo proclamato che tutto sulla Terra può essere suddiviso in due gruppi – gli animati e gli inanimati – e non è un segreto quale sia quello che riteniamo essere superiore. Poi abbiamo insistito a misurare tutte le altre forme di vita rispetto a noi stessi. Quanto più qualcosa è simile a noi – quanto più sembra muoversi, parlare, sentire, pensare – tanto più per noi è vivo. Anche se il particolare insieme di attributi che rende umano un essere umano non è chiaramente l’unico modo (e, in termini evolutivi, neppure il più efficace) per essere una “cosa vivente”.
(La versione integrale di questo articolo è stata pubblicata su scientificamerican.com il 2 dicembre 2013. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati)
Ferris Jabr
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