Nella piana di Radimlje, ad est della strada che dall’Adriatico si spinge a Mostar, capitale dell’Erczegovina, sorge la necropoli di Stolac. Al visitatore, essa si presenta come un agglomerato di steli e di are bianche: insieme di monumenti aggruppati senza ordine geometrico, variamente inclinati dietro l’ideale protezione d’una più elevata croce mutila. Sulla croce, in rilievo, la figura d’un guerriero che alza la mano destra aperta nel saluto a cinque dita. Tra il pollice e l’indice, il segno del disco solare: un benvenuto, oppure un ordine d’arresto. Ma altre steli ripetono e variano l’ambiguo messaggio: guerrieri circondati di archi, di scudi, di daghe levano la destra, talora proteggendo con la loro mole l’analogo gesto di infantili parvenze disarmate. Nella monotonia del rilievo (che oggi diremmo “naif”), la mano è sempre amplificata in iperbolica sproporzione. Talora, sui fianchi dei monumenti a forma d’altare, la sua impronta cava ripete in compiuta astrattezza l’identico segnale misterioso.
Monumenti simili, isolati, sono sparsi per le foreste della Bosnia: sino ai margini del litorale dalmata. Pochi recano tracce di parole incise in caratteri paleoslavi. Uno dice: “Io che non fui come voi siete, sono come voi non sarete”.
Il senso dell’agglomerato di Stolac (saluto di morti ai vivi, o provocazione di individui che si ritengono vivi a posteri pensati come ‘morti’) non ne risulta più chiaro.
Né contribuiscono a svelare l’enigma le residue componenti iconografiche dei monumenti: incisioni e rilievi che riferiscono spirali e alberi della vita; il binomio croce-luna; teorie di uomini e donne con bestie da soma; immagini di tornei o di ignoti fatti d’arme; cavalieri e profili di castelli. Persino la figura architettonica di questi piccoli monumenti – che predilige l’imitazione di strutture dei templi greci o latini – aggiunge altri elementi di perplessità.
La reale identità e la cultura di chi eresse questo inquietante paese di pietra inabitabile non ci sono note. Con ogni probabilità, esso risale all’undicesimo secolo dopo Cristo. Verosimilmente, si ricollega al movimento dei Bogomili. Ma la data e il nome prospettano una storia che non ha l’apparente esattezza e la veste dignitosamente documentata di quella ufficile. I Bogomili, per quest’ultima sarebbero i membri d’una setta ereticale fondata da Geremia, prete nel villaggio bulgaro di Bogomil: donde il nome (che peraltro, significa semplicemente, in slavo, “caro a Dio”). Nel dodicesimo secolo, la cosiddetta eresia orientale – sintesi di dottrine manichee e di elementi cristiani – si sarebbe diffusa, dalla Bulgaria e attraverso il regno di Croazia, a gran parte dell’Europa occidentale, dove i suoi seguaci avrebbero assunto l’appellativo greco di Katharoi (i Puri), finendo col conquistare posizioni di rilievo nell’Italia settentrionale (a Verona, dove si mimetizzarono tra i tessitori) e nella Francia del sud, impegnando la Chiesa di Roma ad un confronto culminato nella sanguinosissima crociata contro gli Albigesi (1208-1228).
Che i Catari provenzali, raccolti attorno alla roccaforte di Albi, abbiano costituito un pericolo tale da suscitare un conflitto tra i più feroci che la storia ricordi (tale, anche, da indurre nella Chiesa modificazioni essenziali: pensiamo solo alla genesi del francescanesimo e del domenicanesimo, alla nascita della Inquisizione) è innegabile. Più oscura – anche se molto probabile – la diretta discendenza dei Catari dai Bogomili. Tuttora oggetto di contrasto, infine, l’opportunità di catalogare questi movimenti antistatali ed eversori nel repertorio delle eresie interne al cristianesimo, o, piuttosto, in quello delle comunioni affatto extracristiane. Che il Dio dei Catari sia davvero il Dio dei Vangeli è alquanto dubbio. Decisamente strano, poi, sarebbe identificare in Cristo il Bog bulgaro e bosniaco, che partecipa tanto dei tratti del Dio di Mani quanto di quelli della divinità protoslava dell’abbondanza e del piacere.
Tra tante ipotesi, le bianche pietre di Stolac, perdute nel panorama della Bosnia, emergono come un segno provocatorio ed inquietante, suscettibile solamente di conclusioni provvisorie scaturite da un processo indiziario. Se esse sono davvero l’ultima parola fossile del movimento bogomila, potrebbero essere un gesto di sfida contro l’occidente cristiano: l’ideale centro di irradiazione d’un contagio che dilagò per l’Europa medioevale, innervandosi sulle ragioni cortesi della civiltà provenzale e sulle ragioni protestatarie dei liberi comuni italiani, per scalzare dal mondo il dominio della croce. Annegato nel sangue il sogno d’una società di eguali unita a liberarsi dai gioghi terreni dietro l’esempio crudele d’una élite di ‘perfetti’, quei monumenti sarebbero poi davvero divenuti necropoli: sacro luogo di morti, eretto a monito e barriera contro i confini estremi della ‘viva’ civiltà cristiana vittoriosa.
Certo, la mano dei guerrieri di Stolac è aperta nell’arcaico saluto cordiale e benefico d’un culto solare. Ma essa appartiene, appunto, a uomini armati: di ogni arma disponibile. Chi incise la pietra delle steli rende ancora oggi testimonianza d’una contraddizione che o non poté o non volle svelare i termini reali del suo sviluppo nella storia. Il visitatore odierno – provocato a riconoscersi irrimediabilmente ‘diverso’ dall’antico fantasma cui il monumento è consacrato – può solo registrare le molte disarmonie della bianca cittadella: cortei di festa, accanto a visioni di scontri bellici; simboli esoterici, accanto a forme elementari e ingenue, parvenze di templi greci rivoltate a sepoltura per un popolo che non ha lasciato all’archeologo neppure un frammento di chiesa né una dimora qualsiasi smozzicata; croci, accanto a falci lunari.
Ma il segno della croce solare unita al segno falcato è cifra d’un culto della fecondità precristiano ed extra-cristiano. Lo stesso vale per il tralcio di vite e per gli alberi della vita; mentre le spirali accennano al ritmo d’una esistenza concepita quale eterno ritorno. Che ciò sia compatibile con il bogomilismo e il catarismo, non sappiamo dimostrarlo. Certo, ci è straniero. Come stranieri al nostro mondo- e poco intenzionati a farsi assimilare ad esso, radicandosi nella Storia – dovevano essere quegli uomini che hanno sposato nella pietra architetture greche e forme artistiche di anacronistica ascendenza iranica o caldea. Nomadi, forse (come dimenticare che il primo nome con cui gli zingari sono conosciuti in Europa è quello di Athinganoi: termine greco che designa una setta manichea approdata a Bisanzio nel secolo ottavo?).
Sicuramente, nomadi dello spirito. Poco inclini a rinchiudersi in confini di pietra. Costretti forse, a fissarvi con fredda delusione il loro destino disperato ma non sterile: fiera e silenziosa protesta contro un mondo dove il saluto a mano aperta del bambino senza difese è costretto, in ultimo, a esprimersi solo all’ombra di un adulto che ripete lo stesso gesto, ma proteggendolo con corazze ed armi. Contro una minaccia invisibile, che si identifica crudelmente con lo sguardo occidentale del visitatore contemporaneo.
(Fotografie e testo di R.Tessari)