Risale ormai a circa sette anni fa (era l’estate del 2017), la notizia di una scoperta fatta dai ricercatori del progetto Blue Brain (nato nel 2005 su iniziativa della Scuola Politecnica Federale di Losanna e della IBM), in relazione a ciò che potremmo definire una sorta di multidimensionalità della mente umana. Lo studio in questione apparve sulla rivista “Frontiers in Computational Neuroscience” con il titolo: “Cliques of Neurons Bound into Cavities Provide a Missing Link between Structure and Function”. Ciò che i ricercatori hanno scoperto, in pratica, è che quando il nostro cervello processa dell’informazione (lavorando ad esempio su uno specifico problema), esso crea delle temporanee strutture neuronali in grado di evolvere in uno spazio topologico, passando da una fino a sette dimensioni ed oltre (in alcune reti neuronali infatti, sono state trovate strutture geometriche con un massimo di undici dimensioni). Grazie alla topologia algebrica, una branca della matematica che applica gli strumenti dell’algebra astratta per studiare gli spazi topologici, possiamo disporre di validi strumenti matematici per discernere i dettagli della rete neuronale, sia in una visione ravvicinata a livello dei singoli neuroni, sia su scala più ampia, nel momento in cui prendiamo in considerazione la struttura cerebrale nel suo insieme. Collegando tra loro questi due “livelli” di visualizzazione della realtà neuronale, i ricercatori sono riusciti a distinguere nel cervello, delle strutture geometriche ad alta dimensione, formate da insiemi di neuroni strettamente collegati (cricche) e da spazi vuoti (cavità) tra tali insiemi. Ciò che i ricercatori hanno scoperto, in definitiva, è una quantità ed una varietà entrambe molto elevate di cricche e cavità, tendenti a dimensioni piuttosto elevate che non erano mai state viste prima nelle reti neuronali (sia biologiche che artificiali). Anche se ancora non è chiaro cosa fa sì che cricche e cavità si formino nei loro modi altamente specifici, sembrerebbe che le cavità siano di fondamentale importanza per le nostre funzioni cerebrali. Tuttavia, ancora oggi non sappiamo in che modo la complessità di queste forme geometriche multidimensionali formate dai nostri neuroni, è correlata alla complessità dei vari compiti cognitivi.
Fatta questa breve premessa, possiamo a questo punto dare la parola al nostro caro amico Fausto Intilla, che da molti anni ormai si occupa di divulgazione scientifica e che per Altrogiornale.org, ha già scritto parecchi articoli e si è reso disponibile in molte occasioni, a delle interessanti interviste su vari temi a carattere prettamente scientifico. L’intervista è a cura di Riccardo Viola.
R.V.: “Buongiorno Fausto e bentrovato per questa nuova intervista. Sulla base di quanto è stato esposto finora, vi è qualcosa che vorresti rimarcare? C’è qualche dettaglio che vorresti aggiungere alla sintesi dell’argomento trattato, oppure preferisci spostare l’attenzione su altri contesti che ritieni in qualche modo ad esso correlati?”
F.I.: “Buongiorno Riccardo e grazie di cuore per avermi coinvolto, in questa nuova intervista, in un argomento che ho sempre amato fin da quando ero molto giovane; ovvero, la ricerca sugli aspetti più misteriosi e reconditi della mente umana. Non aggiungo altro sulla sintesi fatta inizialmente per esporre l’argomento in questione, poiché ritengo che sia già sufficientemente esaustiva. Ti confesso che, quando nell’estate del 2017 lessi per la prima volta su “Frontiers in Computational Neuroscience”, l’articolo da te menzionato in apertura di questa intervista, nel momento in cui mi soffermai un istante sulle potenziali undici dimensioni raggiungibili in determinati spazi topologici attraverso l’attività neuronale, il mio pensiero volò subito in un contesto scientifico altamente speculativo, che poco o niente, sembrerebbe, abbia a che vedere con queste recenti scoperte sulla multidimensionalità della mente umana.
La mia abitudine a ragionare sempre per analogie, mi portò infatti subito verso quella che da molti anni è nota, nel campo delle teorie di superstringa (ovvero delle teorie di stringa basate sulla supersimmetria), come teoria M. La teoria in questione, elaborata circa trent’anni fa (1995) da Edward Witten, si propone di unificare praticamente tutte le teorie delle superstringhe coerenti. Ebbene nell’ipotesi di Witten, che egli denominò teoria M, vi era un chiaro riferimento (oltre ad altro ancora) ad una determinata relazione tra le ordinarie teorie di stringa e la teoria della supergravità; una particolare teoria di campo a undici dimensioni. Ma la cosa più sorprendente, è che in questi ultimi anni i teorici stanno cercando di definire/ “riformulare” la teoria di Witten, oltre che sulla base della teoria delle matrici, persino su quella relativa alla dualità di Maldacena; la famosa corrispondenza AdS/CFT (anti-de Sitter / teoria di campo conforme).
Quando si sente parlare di principio olografico o più estesamente di universo olografico, si ricordi che la dualità di Maldacena, è spesso descritta come una dualità olografica. Sappiamo che gli ologrammi sono fondamentalmente di natura bidimensionale, ma ciononostante, essi racchiudono tutta l’informazione relativa agli oggetti da cui traggono origine. Analogamente, le teorie correlate dalla corrispondenza AdS/CFT, si presume siano esattamente equivalenti. Occorre dunque identificare la teoria di campo conforme (CFT) come un ologramma, in grado di catturare l’informazione inerente alla gravità quantistica avente una natura dimensionale di ordine superiore. Circa tre anni fa (2021), l’amica Paola Zizzi, in un interessantissimo lavoro, riuscì a dimostrare il principio olografico nella sua versione quantistica (QHP), nel contesto della Loop Quantum Gravity (LQG). Nel principio olografico quantistico (QHP), l’area della superficie di confine che racchiude una determinata regione di spazio, codifica un qubit per unità di Planck.
È possibile dunque, tirando le somme e ragionando per analogie, ipotizzare dei parallelismi tra il regno della mente umana e quello definito da princìpi ancora non del tutto esplorati/risolti (poiché spesso di ordine addirittura inferiore alla scala di Planck), della realtà quantistica o basata sostanzialmente sulla teoria dell’informazione. Può darsi che, quello scoperto dai ricercatori nello studio dell’attività neuronale nei processi di elaborazione dell’informazione, sia una sorta di fenomeno emergente di natura algebrico-topologica, le cui origini siano da ricercarsi nel regno della teoria delle stringhe o di altre teorie a carattere puramente speculativo, poiché inerenti a contesti lontani dalla possibilità di una verifica sperimentale. Alla fine possiamo solo fare delle ipotesi e null’altro”.
R.V.: “Permettimi tuttavia di aggiungere, caro Fausto, che le ipotesi da te considerate non sembrerebbero, di primo acchito, così campate in aria. D’altronde, proprio in questi ultimi anni, ci siamo avvicinati sempre più all’idea che tutto debba essere in correlazione con tutto. Grazie al crollo definitivo del realismo locale, oggi abbiamo proprio la certezza di vivere in una realtà non-locale”.
F.I.: “Certamente, le cose stanno proprio così. La realtà in cui viviamo è, a tutti gli effetti, non-locale. Gli ultimi dubbi su un eventuale realismo locale, come immagine della realtà, li abbiamo potuti sciogliere nel 2015, con gli ultimi e decisivi (loopholes free) esperimenti sulle disuguaglianze di Bell; dove la violazione di tali disuguaglianze, ha confermato la validità del teorema di Bell e quindi, contemporaneamente, l’inesorabile fine del realismo locale. Nel 2016, è stato inoltre condotto un importante esperimento con particelle tra loro entangled per la verifica del surrealismo quantistico; in tale esperimento (con doppia fenditura) si è dimostrata finalmente l’effettiva esistenza delle traiettorie surreali previste dall’interpretazione di Bohm della meccanica quantistica (dove le particelle seguono traiettorie reali guidate da un’onda pilota e non avviene mai il collasso della funzione d’onda). Si ricordi tuttavia che l’interpretazione di Bohm e quella classica della MQ in cui avviene il collasso della funzione d’onda, sono entrambe coerenti da un punto di vista sperimentale ed equivalenti tra loro in termini matematici. L’interpretazione di Bohm, pur essendo una teoria a variabili nascoste, è infatti non-locale; dunque in accordo con il teorema di Bell e con i principi della MQ. Ma è anche di natura contestuale; come lo è tutta la MQ. Inoltre, dulcis in fundo, riesce a bypassare persino le imposizioni del teorema di Kochen-Specker, per il quale non sono ammesse teorie a variabili nascoste di natura non-contestuale.
Forse siamo andati un po’ troppo fuori tema, perdendo il punto centrale dell’argomento di base e focalizzandoci su questioni indubbiamente interessanti, ma non strettamente legate ai processi di elaborazione dell’informazione nel cervello umano. Nel suo ottimo libro “Piccole variazioni sulla scienza”, Ignazio Licata si chiede quanto possa essere reso complesso un modello di attività cognitiva; citando poi immediatamente la teoria del Dissipative Quantum Brain di Giuseppe Vitiello. Come ci ricorda lo stesso Vitiello, il cervello è un sistema aperto, dissipativo, le cui funzioni non esistono se non nella sua interazione con il mondo; la coscienza invece, è da intendersi come la manifestazione di tale dinamica dissipativa. Dunque la coscienza non è “centrata” sul soggetto (ovvero “chiusa” in esso); essa è piuttosto diffusa nel dominio delle interazioni del cervello con l’ambiente in cui esso è “immerso”.
Nel modello dissipativo, l’acquisizione di una nuova memoria, come ci ricorda sempre lo stesso Vitiello, comporta non solo l’aggiunta di un nuovo attrattore al paesaggio degli attrattori, ma la riorganizzazione dell’intero paesaggio e quindi il suo completo aggiornamento alla luce della nuova acquisizione. Per formalizzare la sua teoria, Vitiello ha applicato il formalismo delle teorie quantistiche dei campi (QFT), alla descrizione della dinamica neuronale. Licata dal canto suo ci ricorda che, contrariamente a quanto accade nei modelli di rete neurale, non c’è saturazione nell’interazione con l’ambiente circostante e nuova informazione si può aggiungere a quella già presente senza distruzioni o sovrascritture. Ciò deriva da una proprietà tecnica relativa alle teorie quantistiche di campo, che è il numero infinito di stati di vuoto. Nel cervello essi si manifestano come un numero enorme di “locazioni” di memoria in forma di domini di correlazione che aumentano con il numero di connessioni che il sistema stabilisce con l’ambiente.
Sempre Licata, nel suo libro citato poc’anzi, sottolinea tuttavia che occorre evitare di cadere in un grosso equivoco; ovvero quello di credere che la teoria di Vitiello possa essere in qualche modo intesa come una sorta di teoria della “mente quantistica” o del “cervello quantistico” (alla stregua di quella ideata da Penrose e Hameroff). No, le teorie di questo tipo sono quantistiche nel senso del formalismo utilizzato per descriverle, che tratta il cervello come un sistema a molte particelle. Per concludere, teniamo sempre presente che la teoria di Vitiello non è Turing-computabile, poiché una teoria quantistica di campo (QFT) non è descrivibile da una logica ma da un metalinguaggio quantistico, ideato da Paola Zizzi nella sua tesi di dottorato. Inoltre, la differenza tra la teoria di Penrose-Hameroff e quella di Vitiello, sta nel fatto che la prima è una visione microscopica-quantomeccanica con computazione quantistica, mentre la seconda è una visione quantistica macroscopica con informazione nascosta e senza computazione.
In altri termini, possiamo dire che la teoria di Vitiello ha un’informazione quantistica nascosta (come dimostra Paola Zizzi nel suo paper: “Quantum Information hidden in quantum fields”, tramite un meccanismo di riduzione, la QFT rivela una struttura interna nascosta di qubits massimamente entanglati); lo stesso Vitiello afferma infatti che ogni vuoto porta con sé un codice di informazione. Però, mentre nella teoria di Penrose-Hameroff, l’informazione quantistica è usata per la computazione quantistica (perché in effetti la loro teoria è basata sulla meccanica quantistica; quindi lì, abbiamo informazione quantistica più computazione quantistica), nella teoria di Vitiello abbiamo solo informazione quantistica nascosta ma non computazione quantistica. È possibile quindi visualizzare le due teorie, una come microscopica (Penrose-Hameroff) e l’altra (Vitiello) come effetto macroscopico quantistico dovuto agli stati coerenti e alle long range correlations.
Potremmo dire, in ultima analisi, che il teorema di incompletezza di Gödel, applicato alla mente (come fecero Roger Penrose nel caso classico e Paola Zizzi nel caso quantistico), vale per una teoria della mente basata sulla QFT come quella di Vitiello, ma non per una teoria basata sulla meccanica quantistica come quella di Penrose-Hameroff.
R.V.: “Davvero tutto molto interessante, Fausto. Mi stanno a questo punto venendo in mente alcune altre domande, sulla questione dell’intelligenza artificiale; ma mi rendo conto che se te le ponessi, questa intervista diverrebbe molto lunga e non voglio approfittare troppo del tuo tempo prezioso, nonché della tua pazienza e disponibilità. Per cui, come al solito, ti ringrazio di cuore a nome di tutta la redazione di AG per la tua preziosa collaborazione e ti auguro una buona continuazione”.
F.I.: “Grazie a te Riccardo. Un caro saluto a voi tutti. A risentirci!”