È arrivato il vaccino e, insieme, sono arrivate le pressioni sugli italiani chiamati a prevenire così l’influenza. Ma vale davvero la pena di vaccinarsi?
Parte la campagna di prevenzione. Più massiccia che mai. Ma due studi importanti obiettano: serve poco a proteggere dal virus
Nuovi dati epidemiologici, presi molto sul serio negli Usa e ignorati in Italia, sembrano suggerire molte cautele. Eppure, quest’anno, alle consuete previsioni che annunciano cinque milioni di influenzati a letto da Natale, si è aggiunto lo spauracchio della pandemia aviaria, che ha fornito nuove frecce alla lobby sempre più agguerrita degli immunizzatori a tappeto.
Il ministro Francesco Storace ha invitato la popolazione a fare per ora il vaccino stagionale contro la comune influenza, certo che possa essere utile anche in caso di pandemia da aviaria. Storace è stato chiaro: “Inviteremo le aziende sanitarie a vaccinare il massimo numero di cittadini, attraverso gli accordi già siglati con le Regioni e le campagne di comunicazione. Credo che questo possa aiutarci a fronteggiare eventuali arrivi del virus dei polli”.
Una chiamata alle armi che va oltre le tradizionali raccomandazioni stilate anche per quest’anno dal Ministero, che consigliano di vaccinare gli ultra 65enni, il personale sanitario nonché bambini e adulti affetti da malattie croniche quali il diabete, le cardiopatie e le affezioni respiratorie. E allora, viene da chiedersi, quali ragioni medico-scientifiche inducono il ministro a pensare che il vaccino contro il virus 2005 possa proteggere anche contro il temuto contagio aviario?
Non solo: lo stupore aumenta vedendo che due autorevoli fonti come ‘The Lancet’ e ‘Archives of Internal Medicine’, dopo aver esaminato l’effetto delle vaccinazioni sulle normali influenze, concludono che, nella popolazione anziana, il vaccino non protegge granché. La notizia ha suscitato clamore negli Usa, dove si sono messi in moto anche i Cdc (l’istituzione preposta al controllo delle malattie infettive). Ma non scuote le convinzioni dei consiglieri di Storace.
I suggeritori della nuova tentazione di vaccinare il maggior numero di persone sono il capo del Centro per il Controllo delle malattie del Ministero, Donato Greco, e il direttore del Centro interuniversitario di ricerca sull’influenza e responsabile della task force sulla pandemia Pietro Crovari. Cui si aggiunge una nutrita schiera di pediatri. Per la delizia delle industrie che a suon di fusioni stanno prendendo in mano il promettente business dei vaccini, in testa Glaxo, Chiron e Sanofi. E che non lesinano sostegno all’attività di società scientifiche e di associazioni, in prima linea per l’estensione gratuita del vaccino ai più piccoli.
Una vaccinazione più diffusa contro la comune influenza, a loro dire, sarebbe augurabile per due ragioni
“Vaccinare molto sarà importante in previsione della possibile pandemia”, spiega Pietro Crovari: “Per due ragioni: per attivare le difese immunitarie degli individui, e per mettere alla prova il sistema organizzativo della sanità pubblica.
È importante oliare il meccanismo in modo che le persone a rischio si abituino alle vaccinazioni e sappiano cosa fare e dove andare. In Italia vanno bene le vaccinazioni sugli anziani, ma non riusciamo a raggiungere gli under 65 a rischio”.
Aggiunge il virologo dell’Università di Milano Fabrizio Pregliasco: “Il vaccino si fa con il siero, e quando ci sarà la pandemia avremo bisogno di 60 milioni di dosi di siero in brevissimo tempo. Questo sarà possibile solo se l’industria sarà stimolata fin da ora a produrre decine di milioni di vaccini per l’influenza”. In altre parole, si tratterebbe di oliare gli ingranaggi un po’ arrugginiti dell’industria dei vaccini perché possa filare spedita in caso di vera emergenza.
“A dire il vero questa argomentazione suona un po’ come un aut aut che l’industria fa all’autorità pubblica: se vuoi che ti produca abbastanza vaccino pandemico quando sarà il momento, se mai lo sarà, mi devi comperare tante dosi di vaccino normale da adesso in poi”, commenta l’esperto di sanità pubblica e vaccini della Regione Piemonte Vittorio Demicheli: “Non mi sembra una ragione che debba indurre a un’estensione indiscriminata delle vaccinazioni. Tanto più che gli ultimi dati scientifici ridimensionano fortemente l’efficacia dei vaccini antinfluenzali attualmente in commercio”.
Può essere una coincidenza. Ma proprio nei giorni in cui si sente ripetere il teorema “vacciniamo il più possibile”, sulla comunità scientifica piomba come un meteorite la revisione sull’efficacia del vaccino tradizionale, pubblicata dalla rivista ‘Lancet’ di cui abbiamo accennato.
La ricerca dice, in sostanza, che sugli anziani l’efficacia del vaccino antinfluenzale è modesta: addirittura negli anziani che vivono nelle loro case (e quindi non sono molto malati o disabili) il classico vaccino trivalente non protegge dall’influenza e dalle semplici affezioni broncorespiratorie; e riesce a abbassare non più del 30 per cento i ricoveri per polmonite. Sugli anziani che vivono nelle case di riposo, invece, la copertura vaccinale parrebbe capace di ridurre le morti per influenza e polmoniti, ma solo fino al 42 per cento.
Dati ben al di sotto di quelli presi a riferimento dalle politiche vaccinali degli Stati, come quello italiano che parla di un’efficacia del vaccino fino al 90 per cento nel contrastare l’influenza e del 70-90 nel ridurre le complicazioni e le morti.
La revisione, compiuta dal Gruppo Cochrane e finanziata interamente dalla Regione Piemonte tramite le Asl di Asti e Alessandria, ha considerato 4.400 studi prodotti negli ultimi quarant’anni, ed è il compimento di una trilogia che riguarda anche adulti e bambini. Anche per loro la reale efficacia del vaccino contro le varie forme influenzali non supera il 30 per cento, e nel caso dei bambini con meno di due anni è prossima allo zero.
È una doccia fredda non solo per i sostenitori del vaccino in funzione anti-pollo. Ma anche per le consolidate politiche vaccinali di Stati Uniti ed Europa, che mettono in testa alle raccomandazioni per gli over 65, in quanto più esposti alla possibilità di ricovero o morte a causa dell’influenza. A sostegno delle conclusioni della revisione italiana giunge anche uno studio pubblicato su ‘Archives of Internal Medicine’, secondo cui il tasso di mortalità per influenza tra gli anziani è in realtà cresciuto, negli Stati Uniti, nel corso degli ultimi due decenni.
E questo nonostante la copertura del vaccino tra gli over 65 sia passata dal 20 per cento del 1980 al 65 per cento del 2001. “I benefici della vaccinazione per la mortalità”, scrive l’autrice Lone Simonsen, epidemiologa del National Institute of Allergy and Infectious Diseases di Bethesda, “potrebbero essere significativamente minori di quanto si pensava”. Anche perché, prosegue l’epidemiologa, sarebbe lo stesso sistema immunitario a subire un processo di senescenza che lo rende meno reattivo alla vaccinazione in chi ha superato i sessantacinque anni.
Un altro modo per proteggere gli anziani dall’influenza sarebbe, secondo alcuni, l’immunizzazione dei bambini, principale veicolo della malattia stagionale. Protetti loro, in un certo senso, protetti tutti, o quasi. È quanto pensano, per esempio, i Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) di Atlanta, che da qualche anno incoraggiano la vaccinazione dei bimbi di età compresa fra 6 e 23 mesi. Una strada già percorsa in Giappone e che ora stanno tentando anche il Canada e l’Italia.
Dice Pregliasco: “Abbiamo dati che indicano l’utilità di vaccinare anche i sani: la profilassi sui bambini taglia i costi di ospedalizzazione e protegge dal virus anche i nonni”. Contrario invece uno degli autori del lavoro uscito su ‘Lancet’, l’anglo-italiano Tom Jefferson, del Gruppo Cochrane: “La strada della vaccinazione a tappeto è assai incerta. Ma se proprio si vuole proseguire con le campagne di vaccinazione della popolazione, le nostre ricerche suggeriscono di concentrarsi sugli operatori sanitari e sugli anziani, soprattutto nelle lungodegenze e per scongiurare le complicanze più gravi. Certo non sui bambini e sugli adulti, per i quali non ci sono prove adeguate di efficacia, e nemmeno di sicurezza”.
Quella che è in atto, secondo Jefferson e Demicheli, è una manovra a tenaglia: partire vaccinando le età estreme – vecchi e bambini – per poi convergere verso la mezza età: “Da quando le case produttrici di vaccini sono entrate nell’ottica del marketing aggressivo di Big Pharma, la strategia sull’influenza ha cominciato a percorrere tre vie.
La prima: vaccinare i paesi poveri. Ma questi non hanno soldi e i fondi di solidarietà sono controllati da organizzazioni come l’Oms, che dirottano gli aiuti verso problemi più importanti.
Seconda via: vaccinare nuove categorie nei paesi ricchi, come gli adulti e i bambini. Qui il colpo è riuscito in Nord America ma è fallito per ora in Europa.
Terza via: vaccinare per prepararsi contro il rischio pandemia. Questa è la manovra in corso in questo momento”.
Tuttavia le statistiche dicono che l’influenza resta una delle principali cause di morte a livello mondiale e che la guardia non va abbassata. Che fare, allora?
Se le ricerche mostrano la scarsa efficacia dei vaccini tradizionali, forse bisognerebbe puntare su vaccini potenzialmente più efficaci, come quello con aggiunta di adiuvante e quello cosiddetto virosomale: entrambi sono già in commercio in Italia (prodotti rispettivamente da Chiron e Baxter, Berna e Solvay) e sembrano in grado di stimolare più potentemente le difese immunitarie. Ma mancano ancora studi che dimostrino sul campo la loro superiorità rispetto al vaccino trivalente classico.
“Poi bisognerebbe superare la logica che di fronte a una realtà complessa come le malattie infettive respiratorie offre solo la panacea del vaccino”, conclude Demicheli: “Il caso della Sars dimostra che le risposte più efficaci sono articolate in molti interventi: da forme di trattamento precoce e di isolamento degli infetti, all’igiene delle mani, a una buona alimentazione e a una adeguata assistenza di base”.
Luca Carra
Collaboratori: Sergio Cima e Nicola Nosengo
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