Un numero sempre più grande di prove collega questa malattia neurodegenerativa al tratto gastrointestinale, indicando vari meccanismi e vie attraverso cui potrebbe aver luogo questo coinvolgimento. Si aprirebbe così la possibilità di nuovi trattamenti terapeutici indirizzati all’intestino invece che al cervello. La prima prova che l’intestino potrebbe essere coinvolto nel Parkinson è emersa più di 200 anni fa. Nel 1817, il chirurgo inglese James Parkinson riferì che alcuni pazienti con una condizione che chiamava “paralisi agitante” sperimentavano stitichezza. In uno dei sei casi descritti, il trattamento dei disturbi gastrointestinali sembrava alleviare i problemi legati al movimento associati alla malattia.
Da allora, i medici hanno notato che la stitichezza è uno dei sintomi più comuni del morbo di Parkinson: si manifesta in circa metà degli individui ai quali è stata diagnosticata questa condizione e spesso precede l’insorgenza di disturbi del movimento.
Tuttavia, per molti decenni, la ricerca sul Parkinson si è focalizzata sul cervello. Gli scienziati inizialmente si sono concentrati sulla perdita di neuroni che producono dopamina, una molecola coinvolta in molte funzioni, incluso il movimento. Più di recente, si sono concentrati anche sull’aggregazione di alfa-sinucleina, una proteina che nei soggetti con Parkinson si trasforma in una forma aberrante. Nel 2003 è avvenuto un cambiamento, quando Heiko Braak, neuroanatomista dell’Università di Ulm, in Germania, e colleghi hanno proposto che il morbo di Parkinson possa effettivamente avere origine nell’intestino invece che nel cervello.
La teoria di Braak si fondava sull’osservazione che nei campioni post mortem di pazienti affetti da Parkinson, i corpi di Lewy, cioè gli ammassi di alfa-sinucleina, apparivano sia nel cervello sia nel sistema nervoso gastrointestinale che controlla il funzionamento dell’intestino. Il lavoro di Braak e colleghi ha anche suggerito che i cambiamenti patologici nei pazienti si sviluppano tipicamente secondo stadi prevedibili che iniziano nell’intestino e terminano nel cervello. In quel periodo, i
ricercatori ipotizzavano che questo processo fosse collegato a un “patogeno ancora non identificato” che viaggia lungo il nervo vago, un fascio di fibre che collega i principali organi al tronco encefalico, che unisce il midollo spinale al cervello.
L’idea che i primi stadi del morbo di Parkinson possano manifestarsi nel tratto gastrointestinale prende sempre più piede. Questa ipotesi è sostenuta da un numero crescente di prove, ma la questione di come i cambiamenti nell’intestino determinino la neurodegenerazione del cervello è un’area di indagine ancora attiva. Alcuni studi suggeriscono che gli ammassi di alfa-sinucleina si muovano dall’intestino al cervello attraverso il nervo vago. Altri suggeriscono che molecole come i prodotti di degradazione batterica stimolino l’attività lungo questo canale, o che l’intestino influenzi il cervello attraverso altri meccanismi, come l’infiammazione. Insieme, però, questi risultati vanno ad aggiungersi al consenso crescente all’idea che “sebbene il Parkinson sia diretto essenzialmente da anomalie cerebrali, questo non significa che il processo inizi nel cervello”, spiega Michael Schlossmacher, medico ricercatore dell’Ottawa Hospital Research Institute.
Un’autostrada dall’intestino al cervello
Il nervo vago, un fascio di fibre che ha origine nel tronco cerebrale e innerva gli organi principali, incluso l’intestino, può essere la via principale attraverso cui i fattori patologici scatenanti del Parkinson passano dal tratto gastrointestinale al cervello. Recenti studi epidemiologici su pazienti con vagotomia, il cui nervo vago è stato reciso, mostrano un rischio più basso di sviluppare questa malattia. I ricercatori hanno anche dimostrato che fibre di alfa-sinucleina iniettate nei tratti gastrointestinali di roditori possono percorrere il vago fino al cervello.
Se l’alfa-sinucleina viaggia dall’intestino al cervello, allora la domanda è: perché la proteina si accumula prima nell’intestino? Una possibilità è che l’alfa-sinucleina prodotta nel sistema nervoso gastrointestinale aiuti a combattere i patogeni. L’anno scorso Michael Zasloff, professore alla Georgetown University, e colleghi hanno documentato la presenza della proteina nell’intestino di bambini sani dopo un’infezione da norovirus e che, almeno in vitro, l’alfa-sinucleina poteva attirare e attivare le cellule immunitarie.
I microbi stessi sono un altro potenziale innesco per promuovere l’accumulo di alfa-sinucleina intestinale. I ricercatori hanno scoperto che nei topi le proteine batteriche potrebbero innescare l’aggregazione dell’alfa-sinucleina nell’intestino e nel cervello. Alcune proteine prodotte dai batteri possono formare fibre piccole e resistenti, la cui forma potrebbe causare l’errato ripiegamento e l’aggregazione delle proteine vicine, in modo simile ai prioni responsabili della malattia della mucca pazza, spiega Robert Friedland, neurologo dell’Università di Louisville coautore quello studio.
Il microbioma, la totalità dei microrganismi nel corpo umano, ha suscitato un grande interesse tra i ricercatori che si occupano di Parkinson. Numerosi studi hanno notato che gli individui affetti dalla malattia ospitano una composizione peculiare di microbi intestinali, e gli scienziati hanno anche scoperto che trapiantare microbi fecali dai pazienti ai roditori predisposti a sviluppare il Parkinson può peggiorare i sintomi motori della malattia e aumentare l’aggregazione di alfa-sinucleina nel cervello.
Ma anziché proteine batteriche responsabili dell’errato ripiegamento proteico, Sarkis Mazmanian, microbiologo del California Institute of Technology, ritiene che questi microbi possano agire tramite i metaboliti che producono, come gli acidi grassi a catena corta. Esperimenti sui topi nel suo laboratorio hanno mostrato che queste molecole sembrano attivare la microglia, l’insieme delle cellule immunitarie del cervello. I metaboliti, aggiunge Mazmanian, possono inviare un segnale attraverso il nervo vago o aggirarlo tramite un’altra via, come il flusso sanguigno. Poiché gli studi epidemiologici indicano che la rimozione del nervo vago non elimina del tutto il rischio di Parkinson, possono essere coinvolte anche altre vie cerebrali. “Stiamo verificando questa possibilità”, afferma Mazmanian.
Un ruolo per l’infiammazione?
Un’altra idea ancora prevede che l’infiammazione intestinale, forse causata da microbi intestinali, possa far emergere il morbo di Parkinson. Le ultime prove a sostegno di questa ipotesi provengono da un ampio studio epidemiologico, in cui Peter Inga, epidemiologo genetico della Icahn School of Medicine at Mount Sinai, e colleghi hanno analizzato due grandi banche dati mediche statunitensi per indagare sulla sovrapposizione tra malattie infiammatorie intestinali e Parkinson.
La loro analisi ha confrontato 144.018 persone con malattia di Crohn o colite ulcerosa e 720.090 controlli sani, e ha rivelato che la prevalenza del Parkinson era superiore del 28 per cento nei soggetti con malattie infiammatorie dell’intestino rispetto a quelli nel gruppo di controllo, sostenendo risultati precedenti ottenuti dagli stessi ricercatori, secondo cui i due disturbi condividono legami genetici. Inoltre, il gruppo di ricerca ha scoperto che nelle persone che hanno assunto farmaci per ridurre l’infiammazione – inibitori del fattore di necrosi tumorale (TNF) – l’incidenza della malattia neurodegenerativa è scesa del 78 per cento.
Questo studio conferma ulteriormente la teoria secondo cui l’infiammazione intestinale potrebbe influenzare la patogenesi del Parkinson, dice Madelyn Houser, ricercatrice del laboratorio della neuroscienziata Malú Tansey alla Emory University. In particolare, la scoperta relativa agli anti-TNF, aggiunge Houser, suggerisce che “la sovrapposizione tra le due malattie potrebbe essere principalmente mediata dall’infiammazione”.
L’infiammazione intestinale potrebbe far emergere il Parkinson in diversi modi, spiega Houser. Una possibilità è che un intestino cronicamente infiammato possa far aumentare localmente i livelli di alfa-sinucleina – come suggerisce lo studio di Zasloff sui bambini – oppure può dare origine a un’infiammazione in tutto il corpo, il che di per sé potrebbe aumentare la permeabilità dell’intestino e le barriere emato-encefaliche. Oppure potrebbe aumentare le citochine circolanti, cioè le molecole che possono favorire l’infiammazione. Tansey aggiunge che anche i cambiamenti nel microbioma potrebbero influire sull’infiammazione intestinale.
“Probabilmente ci sono più vie che portano l’intestino al cervello”, dice Peter, spiegando che è troppo presto per escludere qualsiasi ipotesi. Per ora, il suo gruppo è concentrato sul cercare di capire se l’effetto protettivo dei composti anti-TNF sia dovuto all’abbassamento dell’infiammazione in tutto il corpo, che potrebbe derivare da altre condizioni, o se ne traggono beneficio solo le persone con disturbi intestinali. Peter ha in programma di studiare la prevalenza del Parkinson in altri pazienti che assumono questi farmaci, come quelli affetti da psoriasi o artrite reumatoide.
Poiché non tutti i pazienti affetti da Parkinson hanno disturbi infiammatori dell’intestino, i risultati degli studi sulla concomitanza delle due condizioni potrebbero non essere generalizzabili a tutti i soggetti con la malattia neurodegenerativa, afferma Mazmanian. Eppure, questi studi e molti altri emersi negli ultimi anni sostengono la correttezza dell’idea per cui l’intestino sia coinvolto nel Parkinson, aggiunge. “Se questo in effetti è vero, ci permette di concepire interventi indirizzati all’intestino anziché al cervello”.
Alcuni ricercatori hanno già iniziato a testare questi interventi. Nel 2015, Zasloff e colleghi hanno fondato Enterin, un’azienda che testa un composto che rallenta l’aggregazione di alfa-sinucleina nell’intestino. Anche se il trattamento ha lo scopo di ridurre i sintomi non motori del Parkinson, come la stitichezza, i ricercatori sperano che, mirando alla patologia intestinale, saranno in grado di ripristinare o prevenire gli effetti della malattia sul sistema nervoso centrale.
Anche se molte tipologie di prove sostengono le origini intestinali del Parkinson, rimane la questione di quanto precocemente avvengono i cambiamenti gastrointestinali, dice Tansey. Inoltre, altri scienziati hanno suggerito che è ancora possibile che la malattia abbia inizio altrove nel corpo. In realtà, Braak e colleghi hanno trovato corpi di Lewy anche nel bulbo olfattivo, il che li ha portati a proporre il naso come un’altra potenziale zona di innesco. “Probabilmente ci sono più siti di origine per il Parkinson”, dice Viviane Labrie, neuroscienziata del Van Andel Research Institute, in Michigan. “Per alcuni individui, potrebbe essere l’intestino, per altri potrebbe essere il sistema olfattivo, o potrebbe essere solo qualcosa che avviene nel cervello”.
Diana Kwon/Scientific American
(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su “Scientific American” l’8 maggio 2018. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)