Una lettura fondamentale per conoscere il buddhismo tibetano. Il Bardo Thodol (Libro tibetano dei morti).
Quando il viaggio della mia vita é giunto alla fine
e, poiché i parenti non possono seguirmi da questo mondo,
solo vago nello stato di bardo,
possano i buddha pacifici e infuriati intervenire con il potere della loro compassione
e disperdere le fitte tenebre dell’ignoranza.
Quando, separato dagli amici che amo, solo vado vagando
e le forme vacue delle mie proiezioni appaiono,
possano i buddha intervenire con la forza della loro compassione
affinché i terrori del bardo non emergano.
Quando le cinque luminose luci della saggezza splendono,
possa io, senza paura, riconoscere me stesso;
quando le forme pacifiche e infuriate appaiono,
senza paura, con fiducia, possa io riconoscere il bardo.
Ai fini della nostra ricerca, che consiste nello scoprire, indagare, presentare e approfondire alcuni elementi della cultura e della tradizione proprie della Regione Autonoma Cinese del Tibet, un primo momento deve essere senz’altro dedicato ai temi riguardanti il suo immenso – e certamente complesso se non controverso – patrimonio culturale religioso. In relazione a ciò, ed al fine di comprendere più approfonditamente la visione mistico-religiosa del buddhismo tibetano, una lettura imprescindibile è costituita dal cosiddetto Bardo Thodol, testo maggiormente conosciuto in occidente con i titoli di Libro tibetano dei morti o anche di Libro tibetano del vivere e del morire.
Va anzitutto ricordato che il Bardo Thodol fu composto dal grande maestro Padma Sambhava (o Padmasambhava), in un’epoca databile tra l’VIII e il IX secolo, e destinato essenzialmente ai buddhisti indiani e tibetani. Fu da questi nascosto per un’era imprecisata a venire, e ritrovato solamente nel XIV secolo da Karma Lingpa. Il Bardo Thodol fa parte di una serie di istruzioni riferentisi ai sei metodi canonici di liberazione: liberazione attraverso l’udire, liberazione attraverso l’indossare, liberazione attraverso il vedere, liberazione attraverso il ricordare, liberazione attraverso il gustare e liberazione attraverso il toccare.
Liberazione, in questo caso, significa che chiunque venga in contatto con questo insegnamento, per il potere di trasmissione contenuto in questi tesori, sperimenta un improvviso lampo di illuminazione. Tali preghiere-istruzioni furono composte da Padma Sambhava e trascritte probabilmente da sua moglie, Yeshe Tsogyal, assieme al sādhana dei due mandala delle quarantadue divinità pacifiche e delle cinquantotto infuriate. Questo maestro buddhista, in Tibet è noto come il Prezioso Maestro o Guru Rinpoche, ed è venerato dalla scuola Nyingmapa come secondo Buddha. Viene considerato il primo e più importante diffusore del buddhismo in Tibet, particolarmente del Vajrayana e il fondatore del buddhismo tibetano. Il suo culto è diffuso anche in Bhutan e nel Sikkim del’India. Padma Sambhava seppellì questi testi sui monti Gampo, nel Tibet centrale, dove, più tardi, il grande maestro Gampopa fondò il suo monastero.
Oltre a questo, molti altri testi e oggetti sacri furono seppelliti ovunque in vari luoghi del Tibet, e sono solitamente noti come terma, ovvero tesori nascosti. Padma Sambhava, l’autore, trasmise il potere di scoprire i terma ai suoi venticinque discepoli principali. Successivamente i testi del Bardo furono scoperti da Karma Lingpa, incarnazione di uno di essi. Karma Lingpa apparteneva alla tradizione Nyingma, ma i suoi discepoli erano tutti di tradizione kagyü. Trasmise i sei insegnamenti sulla liberazione per primo a Dödül-Dorje, tredicesimo Karmapa, che, a sua volta, li trasmise a Gyunne-Tenphel, ottavo Trungpa. La trasmissione di questi straordinari insegnamenti fu così tenuta viva nei monasteri di Surmang, della linea di discendenza dei Trungpa, per poi diffondersi anche nella scuola Nyingma. Secondo la tradizione tibetana, chi riceve questi insegnamenti pratica il sādhana e studia i testi per assimilare completamente i due mandala che entrano a far parte della sua esperienza di vita.
Brevemente, il libro interpreta le esperienze dello stato intermedio (in tibetano bar-do, appunto), di solito riferito alla condizione transitoria tra la morte e la rinascita, secondo la prospettiva degli iniziati in un particolare mandala esoterico, il mandala delle cento divinità in disposizione del Buddha, divinità (o stati) miti o feroci a seconda dei casi. Il titolo Il libro tibetano dei morti si deve alla traduzione occidentale proposta dallo studioso indiano Kazi Dawa Samdup e dall’antropologo statunitense W.H.Y. Evans-Wentz. In realtà, Il Bardo Thodol (traducibile dal tibetano con Suprema liberazione con l’ascolto), noto comunemente nei paesi occidentali come
Libro tibetano dei morti, è un testo classico del buddismo tibetano, anzi ne è probabilmente una summa. Va inoltre precisato che Bardo thos grol (talvolta tradotto ulteriormente come Bardo Thötröl, o bar-do’i-thos-grol), tuttavia, nell’autentico titolo tibetano, non significa esattamente il libro dei morti. Bardo indica, come si è detto, la condizione intermedia mentre le parole thos grol significano che l’insegnamento offerto da questo libro libera non appena lo si apprenda o intenda, ascolti, offrendo alla persona che affronta lo stato intermedio una comprensione intuitivamente così chiara e profonda da non richiedere una riflessione prolungata.
Il titolo tibetano più completo dell’opera potrebbe perciò essere Il grande libro della liberazione naturale attraverso la comprensione nello stadio intermedio. Questo alla luce del fatto che i buddhisti tibetani distinguono comunemente sei stati intermedi: l’intervallo tra la morte e la rinascita, tra il sonno e la veglia, tra la veglia e l’assorbimento profondo, e i tre stati intermedi durante il processo di morte-rinascita. Un’approfondita descrizione del processo di morte ricavata dalla vasta letteratura tibetana sullo yoga supremo (Il profondo insegnamento della liberazione naturale attraverso la contemplazione delle divinità di Buddha miti e feroci), fanno di questo testo un volume di assoluto riferimento, insomma un grande classico del pensiero orientale. Infatti, nelle tradizioni segrete del Tibet si trovano dottrine che si occupano dei problemi centrali dell’esistenza umana, delle vie da percorrere per arrivare all’autoconoscenza, all’autocoscienza e alla liberazione interiore. Il Libro tibetano dei morti fa parte di queste tradizioni segrete.
È un’opera che descrive tutte le visioni post-mortali corrispondenti a profonde conoscenze dei maestri tibetani, attingendo alla ricca tradizione delle dottrine esoteriche. Per contestualizzare lo spirito di questo testo nella tradizione mistico-spirituale tibetana, va precisato che Il libro descrive le esperienze che l’anima cosciente vive ancora dopo la morte, o meglio nell’intervallo di tempo che, secondo la cultura buddhista in genere, intercorre tra la morte e la rinascita. Questo intervallo si chiama, in tibetano, appunto bardo. Il libro include anche capitoli riguardanti i simboli di morte, i rituali da intraprendere quando la morte si avvicina, o quando essa ormai è avvenuta. Secondo la tradizione rituale locale, il Bardo Thodol viene recitato presso il corpo del defunto (o del morente) in un periodo di tempo dopo la morte in cui si ritiene che possa ancora essere ricettivo, per rammentare la dottrina del vuoto, dell’impermanenza, ed aiutarne lo spirito ad evitare il ciclo di rinascita, avvicinandosi quindi allo stato del nirvana assoluto.
Nel libro si ripercorrono infatti tre fasi nelle quali progressivamente si incammina lo spirito dell’individuo nella condizione di transizione; anzitutto si cerca di favorire lo scioglimento dello spirito nel nirvana. Inoltre si aiuta ad identificare lo spirito con le divinità (in un senso ben differente da come comunemente inteso in occidente) proprie di questo stadio vitale intermedio, interposto tra l’ingresso nel nirvana o la ricaduta nel ciclo di rinascite. Di tale piano sono caratteristici i Cinque Buddha spesso raffigurati nei mandala. In definitiva, attraverso i rituali contemplati da questo testo tradizionale, si tenta di evitare la ricaduta nel ciclo di rinascite dell’individuo, e sospingerlo verso la liberazione assoluta.
Fornendo qualche nota storiografica, va segnalato che la prima traduzione italiana direttamente dal tibetano è del 1949 ad opera di Giuseppe Tucci, noto per essere stato un esploratore e probabilmente uno dei più esperti orientalisti italiani del secolo passato. Va ricordato, a scanso di equivoci, che il testo in oggetto è quello universalmente più noto della tradizione buddhista tibetana Nyingmapa, la cui copia originale è conservata presso un monastero buddhista nella città di Darjeeling, in India. Aprendo una parentesi necessaria ai meno esperti in fatto di tradizione (anzi tradizioni) buddhista, va rammentato che il lignaggio monastico Nyingma o Nyingmapa (più o meno traducibile in lignaggio degli antichi) appartiene al buddhismo Vajrayana nel suo sviluppo in Tibet come buddhismo tibetano ed è il più antico dei quattro principali lignaggi tibetani attualmente esistenti con Kagyüpa, Sakyapa e Gelugpa (questi ultimi conosciuti come berretti gialli, setta a cui appartiene il Dalai Lama).
Come già accennato, questa scuola monastica fa risalire i propri insegnamenti alla prima diffusione del buddhismo in Tibet da parte di Padmasambhava, e dai suoi immediati discepoli che tradussero vari sutra Mahayana, Tantra e Testi del Canone Sanscrito (che però non divennero poi parte del Canone Tibetano). Attualmente i Nyingmapa sono particolarmente diffusi nel Tibet Orientale ed in altre regioni della Cina, quali il Sichuan occidentale, lo Yunnan nordorientale, ma anche nel Nepal e in Bhutan.
Tornando al testo, gli eventi del trapasso e le esperienze del dopo-morte — che vanno dalla reincarnazione alla liberazione totale, detta appunto nirvana — sono narrati in modo suggestivo, ma anche con seria e profonda competenza, riuscendo a portare il lettore ad un livello di lettura profondo e trascinante, aprendo scorci intellettuali certamente impervi ma sicuramente meditativi agli occhi dell’osservatore occidentale. Dal momento che esperienza di vita, conoscenza della realtà e perfezione intellettuale costituiscono la base dottrinaria degli stati trascendenti, si può definire questo testo come un libro di vita, ovvero un libro sul significato della vita e un’ottima guida che apre le porte della trascendenza.
La morte appare qui in una luce completamente diversa; anzi si può affermare che appare completamente illuminata (Buddha significa proprio l’illuminato) nel senso autentico del termine; per cui l’abituale interpretazione occidentale della morte come estinzione della vita viene non solo messa in discussione, ma addirittura confutata e demolita. Quest’opera sorprende il lettore per le sue estese rappresentazioni, completamente nuove, che attingono ai testi originali di diversi libri funerari del lamaismo ma anche dell’antica religione tibetana bon. Le molte pagine di questo testo religioso, vengono arricchite con minuziose descrizioni delle iniziazioni del rituale funebre, illustrando la via tibetana del buddhismo attraverso il bar-dò, con tutti i suoi simboli e tutte le sue visioni, in chiave psicologica, e la mette a confronto con stati, atteggiamenti e manifestazioni della coscienza.
Poiché II Libro tibetano dei morti descrive simboli archetipici, diversi interpreti occidentali non hanno riscontrato difficoltà a metterli in relazione con alcune teorie psicanalitiche freudiane e con i concetti di Carl Gustav Jung, a proposito di modello archetipico e inconscio. In questo testo, infatti, anima e coscienza non sono che un’unica e transitoria corporeità. Come ebbe modo di affermare lo studioso buddhista francese Matthieu Ricard, «Il pensiero della morte è costantemente presente al praticante tibetano. Ma, questo pensiero lungi dall’essere triste o morboso, è un incitamento a utilizzare ogni momento dell’esistenza per realizzare la trasformazione interiore, a non sprecare un solo istante della nostra preziosa vita».
Il buddhismo insegna a perdere i radicamenti con la materia, il desiderio, il potere; insegna nella sua generalità (non certamente solo tibetana) ad assumere come preliminare e fondativo il concetto di transitorietà ed impermanenza dell’essere. In questa visione, con la morte l’individuo arriva all’ultimo radicamento, all’ultimo passaggio in questo tempo. La morte non può quindi che essere vista come un bene necessario, perché con essa si può sperare di uscire dalla catena delle esistenze terrene, pur sempre finite ed oggetto di limitazioni, egoismo, attaccamento materiale, schiavitù dei desideri. Secondo il buddhismo, la dottrina della consapevolezza (costituendosi appunto come illuminazione) aiuta ad avere una morte serena e prepara ad essa per tutta la vita. Date queste premesse, la morte è una tappa dell’essere, una semplice transizione (Bar-do), tappa tanto necessaria quanto foriera di nuova speranza verso una rinascita materiale o immateriale.
Ci sono molti Bar-di, ovvero situazioni intermedie, ponti; anche il passare dalla veglia al sonno o dal sonno al sogno è considerato – a titolo di esempio – un Bar-do. Il quesito esistenziale a cui cerca di offrire una soluzione questo testo potrebbe essere il seguente: “Come posso attraversare il passaggio della morte senza angoscia, secondo uno stato di fiducia, serenità ed consapevole accettazione?”. Secondo la tradizione tibetana, e secondo la tradizione rituale, si ritiene che recitare questo testo aiuti il passo che porta l’individuo fuori da questa vita e verso la liberazione totale dal ciclo delle rinascite.
Un curioso parallelismo è stato proposto da diversi studiosi con un testo canonico antico di tutt’altra tradizione, ovvero il Libro dei morti egizio. Tuttavia, tale accostamento risulta abbastanza arduo quando non del tutto improbabile, in quanto tibetani ed egizi hanno una concezione profondamente differente della morte. Se gli egizi erano convinti che l’anima potesse muoversi verso l’oltretomba solo se il corpo non si fosse materialmente corrotto – e perciò erano soliti mummificare i corpi dei Faraoni e degli alti dignitari – nel buddhismo tibetano, all’opposto, il cadavere non è nemmeno inumato a causa del terreno roccioso, è anzi bruciato o fatto a pezzi e abbandonato sulle alture affinché gli uccelli e la natura se ne nutrano. Si abbandona la materia alla materia, affinché per l’anima cominci una vita nuova, superiore.
Il testo appartiene certamente al buddhismo tantrico, ma raccoglie e compendia concetti e credenze già diffuse in India nel II° sec. (nel buddhismo Hinayana e Mahayana). C’è chi fa risalire la sua stesura al 1300 d.C., ma esistono fonti precedenti. Come descritto, il Bardo Thodol è attribuito a Padmasambhava, un taumaturgo del VIII° sec. d.C., uno dei 48 mitici asceti dotati di facoltà straordinarie, maestro di Tantra, considerato uno dei fondatori storici del buddhismo tibetano e venerato anche come secondo Buddha. É una figura leggendaria creata dal fervore religioso dell’epoca, e si dice che viaggiò come missionario in Tibet per introdurvi il buddhismo, quando il paese era ancora dominato dai culti bon, integrando così il buddhismo con la religione tibetana dei demoni, che personificavano le energie naturali. Ancor oggi, nell’Himalaya, egli è venerato col nome di Guru Rimpoche, che significa maestro prezioso. Si dice che egli abbia lasciato delle dottrine segrete (o tesori segreti) nascondendole sotto terra, in caverne, rocce o nei pilastri dei templi, per difenderle da razzie o distruzioni. Secondo la leggenda, queste dottrine sarebbero state ritrovate quando i tempi fossero maturi per comprenderle.
Ci sono perciò i gter-ston (scopritori di tesori) che riescono a trovarle grazie a sogni o visioni di grande esattezza, una credenza che esiste solo in Tibet. I testi ritrovati sono stati scritti in tibetano o nella lingua sacra e misteriosa delle Daini, gli angeli femminili. Inoltre, il testo sacro dice che l’uomo nasce a causa dell’ignoranza, non è consapevole della condizione originale, per questo la coscienza crea una visione dualistica e illusoria in cui l’oggetto è distinto dal soggetto, appaiono i 5 sensi e le 6 passioni, nasce il corpo collegato a piacere e dolore: nell’alternarsi ininterrotto di queste visioni ha inizio la trasmigrazione (Samara, la cosiddetta visione relativa o condizionata). Quando si esce dalla ruota delle vite si può avere, invece, la visione assoluta. Viene definito che ciò solitamente chiamiamo vita terrena, per i tibetani, è solamente un’illusione mentale. Noi sogniamo e il nostro sogno ci sembra realtà, ingannevolmente; la vita terrena è un sogno da cui possiamo svegliarci, comprendendo di colpo la natura illusoria di ciò che crediamo illusoriamente vero.
La maggior parte degli uomini non ne matura consapevolezza, rimanendo annebbiata dalle vacuità materiali, e solo il santo ha avuto l’esperienza del risveglio, ha sperimentato una realtà più profonda, dove la sua coscienza è diventata pura luce, essendo appunto quella del risvegliato, dell’illuminato, una condizione psicologico-morale privilegiata ma non certamente esclusiva o soprannaturale. Ma chi è immerso profondamente nel sogno della vita, stenta a credere che la realtà sia illusoria e potrebbe non svegliarsi mai da questo sempiterno abbaglio psicologico. Rimane così profondamente addormentato, tanto che la sua coscienza passa da un’esistenza ad un’altra come si passa di sogno in sogno, passivamente. I sogni del mondo sono proiezioni mentali disposte lungo fasce vibrazionali, anche se apparentemente dotate di grado diverso di realtà, ovvero di coscienza. Solo chi si sveglia da ogni sogno esce da tutti i mondi illusori, umani, demoniaci o angelici, e se ne libera vedendoli come proiezioni offuscate di una realtà più grande, che dialetticamente e contraddittoriamente potrebbe essere definita solo come continuità dell’impermanenza.
La coscienza oscurata origina azioni e pensieri virtuali, proiezioni mentali create dagli istinti e dalle passioni, in cui si accumulano azioni positive e negative che diventeranno cause di kahrma differenziati, cioè produrranno altri sogni, altre vite, in modo consequenziale. Secondo questa visione, il kahrma è l’azione che perdura e condiziona altri destini, creando il passaggio da una vita all’altra, da un’apparenza all’altra. Infatti, le visioni kahrmiche sono originate da 6 passioni prevalenti: ira, avarizia, ignoranza, orgoglio, gelosia ed egoismo, e tutte queste passioni comprovano la finitudine e la penuria della condizione umana.
Questa lettura, che certamente può apparire tanto ostica nei suoi concetti quanto difficoltosa nelle sue suggestioni linguistiche, tuttavia risulta essere di straordinaria importanza per comprendere la cultura religiosa del Tibet. Indubbiamente riesce a scavare nella coscienza, nelle credenze consolidate, tracciando un collegamento diretto tra argomentazioni psicologiche e sensibilità mistiche. Introduce a una visione della realtà che ci informa non solo sul Tibet ma anche sulla condizione dell’essere, su aspetti sconosciuti del nostro io, che ad un tratto non appare più solido e sicuro, riuscendo a scalfire ogni compattezza materialistico-individualistica tipiche della modernità occidentale.
Marco Costa
“La Repubblica Popolare Cinese e il Tibet”: progetto di ricerca del Cesem
– Centro Studi Eurasia Mediterraneo –