«La vera India non è quella che si vede nelle sue poche città, ma quella dei suoi 700 mila villaggi», diceva Gandhi: «Se questi muoiono morirà anche l’India».
In queste parole è racchiuso lo swadeshi, il programma economico del Mahatma per la promozione delle piccole comunità locali.
L’India libera auspicata da Gandhi non era uno stato nazionale ma una confederazione di villaggi autonomi e autosufficienti. Il potere politico ed economico doveva essere gestito dalle assemblee locali.
Questa filosofia era profondamente radicata nella popolazione: per millenni la gente aveva vissuto in armonia con la natura, mangiando quello che coltivava e tessendo i propri vestiti. Gli animali, la terra e le foreste erano parte integrante di questo equilibrio sociale e ambientale. Ogni regione aveva una propria identità culturale ben definita ed era orgogliosa di questa diversità.
Secondo lo swadeshi, tutto quello che viene prodotto nel villaggio deve essere utilizzato dai suoi abitanti. Il commercio fra villaggi e quello con le città deve essere ridotto al minimo, mentre ciò che non può essere prodotto nei villaggi può essere acquistato altrove.
Lo swadeshi allontana il rischio della dipendenza economica dai mercati stranieri, e al tempo stesso evita trasporti inutili e dannosi per l’ambiente. Ogni villaggio, per essere autosufficiente, dovrebbe avere i propri insegnanti, contadini, musicisti, artigiani e via dicendo. In altre parole, dovrebbe essere una piccola India. Per Gandhi i villaggi erano così importanti che pensava di dar loro uno status amministrativo particolare.
Il Mahatma voleva sostituire l’economia centralizzata di tipo industriale imposta dal colonialismo britannico con un sistema artigianale e decentrato. In effetti il lavoro manuale ha dei contenuti culturali e religiosi ben precisi, perché stimola la responsabilità e promuove i rapporti interpersonali. In questo modo si cementano i rapporti comunitari fra gli abitanti del villaggio.
L’industrializzazione, al contrario, stimola la gente a lasciare il villaggio per andare a lavorare nelle fabbr iche. In questo modo l’uomo perde la propria dignità e diventa una ruota dell’ingranaggio. Divide il suo tempo fra la catena di montaggio e squallidi agglomerati urbani. Poi, quando le industrie richiedono una maggiore produttività, cominciano a rimpiazzare l’uomo con le macchine e producono masse di disoccupati.
Nello swadeshi, invece, la tecnologia è subordinata all’uomo e non assume mai un ruolo principale. Lo stesso principio vale per il mercato.
Gandhi sapeva che la globalizzazione dell’economia avrebbe indotto ogni paese a privilegiare le esportazioni e ridurre al minimo le importazioni per mantenere in equilibrio la bilancia dei pagamenti. Questo avrebbe prodotto continue crisi economiche, disoccupazione e malcontento.
Lo swadeshi non nega l’importanza dell’economia, ma le attribuisce un ruolo subordinato. Se supera un certo limite, la crescita economica ostacola il benessere.
Oggi molti pensano che l’accumulo di beni materiali sia la chiave della felicità. Diceva Gandhi:
«Il benessere è necessario, ma oltre un certo limite diventa un ostacolo. Dietro la creazione di bisogni illimitati si nasconde una trappola. La soddisfazione dei bisogni materiali deve avere dei limiti, altrimenti degenera in culto della ma teria. È il rischio che stanno correndo gli europei, e che avrà effetti devastanti se non compiranno un cambiamento radicale».
L’espansione economica, come insegna la storia, degenera spesso in guerra. «Al mondo c’è abbastanza per soddisfare i bisogni di tutti», diceva Gandhi, «ma non l’avidità di tutti».
Gli economisti odierni, al contrario, sono attratti dal mito della crescita illimitata. E proprio perché non conoscono limiti, non sono mai soddisfatti di quello che hanno.
Lo swadeshi, invece, promuove la pace: pace con sé stessi, con gli altri, con la natura. L’economia globale stimola la competitività e l’ambizione. Il risultato è una vita logorante, con poco spazio per la famiglia e per la propria dimensione spirituale.