Qui, sono stati racolti alcuni testi che, pur pretendendo di raccontare eventi “storici”, in realtà sono apocrifi, cioè estremamente tardivi e considerati non ispirati dalla maggior parte delle chiese cristiane. Sono fioriti nella cosiddetta “epoca intertestamentaria”, cioè nei secoli che intercorrono tra l’epoca maccabaica e quella del Nuovo Testamento, e per lo più si tratta di testi appartenenti, come il libro di Daniele, al genere apocalittico, dal greco “Rivelazione”.
I “Cieli chiusi”
Tra il II secolo a.C. e il I d.C. il Giudaismo produsse una letteratura immensa, oggi conosciuta come apocalittica. Per comprendere i motivi della genesi di quest’immensa produzione letteraria bisogna tenere presente che, in quel periodo, il Giudaismo era politicamente sconfitto, soggetto prima ai regni ellenistici e poi all’impero romano; inoltre, il profetismo era cessato (Malachia è uno degli ultimi profeti che ci ha lasciato il suo testo di predizioni) ed era nato il mito negativo dei “Cieli chiusi”: lo Spirito santo, cioè, non era più disceso su nessun capo o profeta in Israele dopo il ritorno definitivo dall’esilio. E, secondo la credenza comune, senza Spirito santo per Israele non esisteva più la possibilità di una storia; teoricamente, Israele non esisteva nemmeno più. È in questo contesto di pensiero che l’autore di 1 Maccabei, di fronte ai mali nazionali che seguirono la morte di Giuda Maccabeo, scrive (9, 27):
«Infierì allora in Israele una tale oppressione che non se ne era verificata una simile dal giorno in cui non si erano più visti profeti»
Si sperava naturalmente che i cieli si sarebbero aperti alla venuta del Messia, perché il nuovo e definitivo Profeta d’Israele potesse ricevere a sua volta lo Spirito Santo. Questo Profeta era variamente identificato. Alcuni vedevano in lui un Mosè redivivo, rifacendosi a queste parole a lui attribuite (Dt 18, 15):
«Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto»
Altri invece lo rappresentavano con i tratti di Elia o di Enoc, essendo essi stati rapiti in Cielo prima della morte. Ad ogni modo, i pii giudei erano alla ricerca di nuovi modi e criteri per interpretare una storia che, da espressione della Provvidenza divina, si era improvvisamente trasformata – almeno in apparenza – in un cieco brancolare tra le tragedie ed i dolori di questo mondo. Ciò spiega l’abbandono definitivo dei generi letterari preesistenti (la storiografia deuteronomistica e cronachistica, la narrativa edificante, i trattati sapienziali) e la nascita di uno nuovo: quello apocalittico, appunto.
La Bibbia è un’apocalisse?
Proprio perchè significa “Rivelazione”, ogni Apocalisse si struttura su due rivelazioni fondamentali:
- l’evocazione delle origini dei mondo e dell’umanità;
- la scoperta dei segreti riguardanti la fine dei mondo.
Secondo alcuni autori, allora, l’intera Bibbia cristiana altro non sarebbe che la maggiore di tutte le apocalissi: cominciando con la Genesi del mondo e terminando con l’Apocalisse di Giovanni, essa rientra infatti nello schema sopra mostrato. Ma allora anche il Vangelo di Matteo può aspirare al titolo di apocalisse, cominciando con le parole «Biblos genéseos» («Libro dell’origine» di Gesù Cristo), cioè con la genealogia di Gesù in seno ad Israele, e terminando con le parole:
«Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.»
Infatti, secondo questi esegeti, a partire dal II secolo a.C. alcuni movimenti giudaici, malgrado l’apparente «chiusura dei cieli» e la situazione di fallimento nazionale che essa comportava, tentarono di salvaguardare almeno certi segni che permettessero di mantenere viva la storia patria di Israele; e tra questi segni vi erano il Libro sacro e la dottrina dell’ispirazione divina del suo Autore. Sarebbe stato in questo contesto che il libro avrebbe assunto un ruolo decisivo in Israele, fino al punto da dare compimento ai Libri per eccellenza, in greco biblìa, cioè la stessa Bibbia!
H.H. Rowley ha dichiarato che «l’apocalittica è figlia del profetismo, eppure è diversa da essa». Questa affermazione necessita di essere spiegata. Nei libri dei Profeti Maggiori si incontrano già dei veri e propri testi apocalittici: Isaia 24-28 e 34-35 (la cosiddetta Grande e Piccola Apocalisse di Isaia), Ezechiele 38-39, Zaccaria 9-14, Daniele 7-12. A proposito di quest’ultimo, ecco cosa scrive lo storico ebraico Giuseppe Flavio (Antichità Giudaiche X, 266-267):
«tutti i libri che egli ha infatti composto e lasciato sono ancor oggi letti da noi, ed in essi attingiamo la convinzione che Daniele conversasse con Dio. Egli non si limitava ad annunciare gli avvenimenti futuri, come facevano gli altri profeti, ma determinò anche L’epoca in cui si sarebbero verificati»
Daniele è considerato da Giuseppe Flavio più che un profeta, perchè lasciò nella Scrittura quella che le generazioni seguenti leggendo trasformeranno in posterità vivente. Con l’apocalittica si operò dunque il passaggio dal profeta che parla al profeta che scrive, dall’era dell’oracolo all’era dei libro (nasce da qui, nel giudaismo, il concetto dell’ispirazione della scrittura che in seguito il cristianesimo riprenderà ampiamente). Lo scrittore apocalittico è sì un profeta, ma non più per il fatto di pronunciare delle profezie, ma per il fatto di esprimere in uno o più libri le sue visioni e i segreti che esse rivelano sulle origini dei mondo e sulla sua fine. L’Apocalisse di Giovanni, l’opera che chiude la Bibbia cristiana, si rivolge precisamente al «lettore di queste parole profetiche» (1, 3).
Le fasi dell’apocalittica
Assodato che l’apocalittica è nata e si è sviluppata parallelamente all’esperienza che Israele fece della perdita irreversibile della sua vocazione nazionale, siccome per gli Ebrei di Palestina i criteri della speranza erano da secoli uniti alle rivendicazioni politiche, ne consegue che questo genere fiorì maggiormente nei periodi in cui gli Ebrei percepirono che le loro rivendicazioni politiche erano soffocate dalla grande potenza di turno (le famose “quattro bestie” del libro di Daniele). E così, nella storia dell’apocalittica si possono distinguere almeno tre fasi:
- la prima inizia con la rivolta dei Maccabei contro l’ellenizzazione forzata della Palestina da parte del re di Siria Antioco IV Epifane (167 a.C.). Proprio in questo periodo vedono la luce le prime grandi apocalissi, a partire ovviamente dal libro di Daniele.
- un secondo periodo di grande fioritura per questa letteratura corrisponde all’inizio della dominazione romana, visto che la presa di Gerusalemme da parte di Pompeo Magno nel 63 a.C. e la conseguente profanazione del Tempio segnarono profondamente la coscienza del popolo giudaico.
- il terzo periodo è contemporaneo alle violente quanto inutili ribellioni dei Giudei contro l’occupazione romana. La distruzione del Tempio del 70 d.C. e 1’annientamento definitivo della nazione giudaica dopo la sconfitta di Bar Kochbà nel 135 d.C. influenzarono in larga misura la produzione apocalittica.
Tuttavia questa produzione non rappresenta certo il palliativo religioso, quasi lo “zuccherino” per consolare i lettori di una situazione sociale e politica ormai compromessa per sempre; anzi, si tratta di un genere letterario nel vero senso della parola, in quanto era la società ebraica in quanto tale, e non più la nazione o lo Stato d’Israele, che tentava senza armi, per sola via intellettuale, di manifestare che la sua reale esistenza storica non era affatto venuta meno: malgrado la realtà dei “cieli chiusi”, insomma, la storia era comunque possibile. Nell’apocalittica è dunque gia presente un discorso che verrà ampiamente sviluppato in seguito dal cristianesimo: una teoria della storia e della vita animate dallo Spirito Santo. Ad esempio, proprio nell’humus apocalittico giudaico è nato il concetto di risurrezione, che nel cristianesimo conoscerà la fortuna letteraria e dogmatica che sappiamo.
Caratteri dell’apocalittica
Una “scienza della storia”
Nella misura in cui rappresenta una produzione biblica originale (nel senso che anche all’intera Bibbia si può guardare come ad un’Apocalisse), l’apocalittica si impone come scienza della storia. La storia concepita dal popolo ebraico infatti non è solo una serie di avvenimenti: è un tutto unico, un processo unitario che comincia con Adamo e con la nascita del mondo dal caos primordiale, e trova la sua fine in un atto decisivo che riconduce il mondo al suo inizio. In questo troviamo una concezione mitica del tempo: l’inizio e la fine si raggiungono per confondersi in un luogo ipotetico, mitico per l’appunto.
Da qui nasce una delle più famose caratteristiche dell’Apocalittica, sia giudaica che cristiana: l’opposizione tra “questo mondo presente” (ho aion outos) e “il mondo che viene” (ho aion mellon); naturalmente la morte del mondo presente rappresenta la condizione dell’apparire di un sospirato mondo che viene, e questa dinamica assicura l’evoluzione del cosmo e della storia. Tutto questo costituisce ciò che noi chiamiamo l’escatologia (dal greco eschata, «cose ultime»), cioè tutto quanto si riferisce agli «avvenimenti ultimi» dell’umanità e dell’intero universo; già per i Profeti scrittori d’Israele, come si è visto, essi coincideranno con l’instaurazione finale del Regno di Dio.
Per giungere a questa teorizzazione della storia, gli autori apocalittici hanno integrato nella loro opera tutto un bagaglio culturale venuto dalla Grecia e soprattutto dall’Oriente. Nelle apocalissi si incontrano molte caratteristiche babilonesi, persiane e greche: il ruolo e l’importanza dell’angelologia e della demonologia sono, ad esempio, di chiara provenienza orientale. L’osmosi culturale tra l’Oriente e l’Occidente dopo la conquista di Alessandro Magno ha infatti riguardato in modo sensibile la Palestina, terra di passaggio tra l’Egitto e il Mediterraneo da un lato, e la Siria e le terre d’Oriente dall’altro. Alcuni hanno adirittura ipotizzato una specie di “riimmersione nel mito” dell’escatologia a israelitica dalla quale sarebbe sorta l’apocalittica; così per esempio si esprime S. B. Frost (“Old Testament Apocalyptic. Its Origins and Growth”):
«Ciò che noi chiamiamo apocalittica è il prodotto della fusione del mito e dell’escatologia: possiamo infatti definire l’apocalittica come la mitologia dell’escatologia»
Poiché una delle caratteristiche del mito è quella di essere del tutto «a-storico», si può dire che il messaggio di Israele era «a-mitico». Tuttavia, reintrodotto nella profezia, il mito ha una funzione eminentemente “storica”, partecipando all’elaborazione di una teoria delta scoria sempre ripensata dagli autori biblici.
Tirando in ballo la parola “mito”, si potrebbe cadere nella tentazione di fare dell’apocalittica una letteratura marginale nell’ambito del giudaismo, un po’ come è considerata oggigiorno la fantasy di Tolkien o di Lewis: un mero sfoggio di fantasia e di creatività non supportata da alcun riferimento storico attendibile. I libri apocalittici sono in realtà profondamente giudaici, rappresentano in larga misura la produzione letteraria propriamente detta del giudaismo tra il II secolo a.C. e il I d.C., ed alcuni libri appartenenti a questo genere, come quello di Daniele, sono entrati assai presto net canone delle Sacre Scritture. Del resto, il carattere giudaico delle opere apocalittiche è accentuato dall’esame delle loro affinità con la letteratura sapienziale di quel tempo (quello che oggi ci è noto come Libro della Sapienza è probabilmente il più tardo tra tutti i testi veterotestamentari) e con lo stesso studio della Torah, come rivela una sua esegesi approfondita.
Il Libro – Testamento
Spesso e volentieri le apocalissi giudaiche hanno assunto la forma di un “Testamento” inteso come “discorso d’addio” di un patriarca o di un profeta. Dopotutto già la Genesi (47, 29 – 50, 14) contiene il celebre addio del patriarca Giacobbe al suoi figli; addirittura l’addio di Mose ci e noto occupa un libro intero, il Deuteronomio. Soprattutto nella letteratura del tardo giudaismo, divenne abituale rappresentare le grandi figure di Israele che, prima della morte e della loro ascesa al cielo, si rivolgono ai familiari e al loro popolo. Questa abitudine confluì anche nel Nuovo Testamento; il famoso capitolo 13 del Vangelo di Marco, un testo chiaramente apocalittico nella forma e nei contenuti, vuole rappresentare una sorta di “Testamento di Gesù”:
«Mentre era seduto sul monte degli Ulivi, di fronte al tempio, Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea lo interrogavano in disparte: “Dicci: quando accadrà questo, e quale sarà il segno che tutte queste cose staranno per compiersi?” Gesù si mise a dire loro: “Guardate che nessuno v’inganni! Molti verranno in mio nome, dicendo: Sono io, e inganneranno molti. E quando sentirete parlare di guerre, non allarmatevi; bisogna infatti che ciò avvenga, ma non sarà ancora la fine (…) In quei giorni, il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore; gli astri si metteranno a cadere dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria…”» (Mc 13, 3-7 e 24-26)
Numerosi tra i testi conosciuti del corpus delle apocalissi giudaiche ci sono pervenuti sotto il titolo «Testamento di…» È il caso del Testamento del dodici Patriarchi, di cui riparleremo. Ma anche tra gli apocrifi del Nuovo Testamento abbiamo il Testamento del Signore, di ispirazione giovannea, il cui stile è fortemente apocalittico con elementi esseni e gnostici.
I naturali candidati a lasciare questi Testamenti erano i grandi personaggi dell’Antica Alleanza: patriarchi come Adamo, Eva, Enoc, Noè, Abramo, Giacobbe ed i suoi dodici figli; grandi profeti come Mosè, Elia, Geremia, Baruc; riformatori del culto come Esdra. Una cosa è certa: più questi personaggi erano antichi e ersi tra le nebbie della leggenda, più credibile era l’attribuzione pseudoepigrafica a loro di questi testi. E questo vale a maggior ragione per eventi straordinari e sovvertitori del ciclo naturale a loro attribuiti, come l’assunzione in Cielo.
Il rapimento in cielo
Siccome si è detto che l’apocalittica è fiorita particolarmente in epoche in cui i cieli erano “chiusi” e le vicende politiche parevano convergere nel totale fallimento della storia politica di Israele come nazione, era necessario affermare l’ispirazione divina di questi libri, onde testimoniare la costante attenzione di JHWH per il suo popolo anche in momenti di così forte crisi. E così, in numerose apocalissi si è adottato lo stratagemma letterario del «rapimento in cielo » dei presunti autori. In pratica, essendo i cieli chiusi, lo Spirito santo non scendeva più, ma era l’autore a salire verso di lui per leggere, scrivere e narrare (o meglio ripensare) la storia presente e futura. Questo artificio è attinto da culture pagane, sia da quelle orientali che da quella greca; dove si ritrovano almeno tre concetti fondamentali presenti anche nelle apocalissi giudaiche:
- a) Il dio scriba. Infatti il dio babilonese Nabu, figlio di Marduk, per la festa dell’Anno Nuovo si insediava sul «podio del destino» dove era decisa la sorte dell’anno che iniziava. Scribi degli déi erano anche l’egiziano Tot e il greco Ermes.
- b) I riti dionisiaci, dove la sacerdotessa poteva parlare solo dopo aver bevuto del vino che implicava la presenza stessa del dio, e nell’ebbrezza era in grado di profetare, così come nello stato di trance indotto artificialmente nei veggenti presso altre religioni, soprattutto sciamaniche.
- c) Il mito delle età successive del mondo, che si trova per la prima volta in Esiodo: il mondo ha attraversato varie età, passando da uno stato di quasi comunione con Dio (come nel biblico Eden) sino alla più completa corruzione del mondo presente, ormai vicino al tempo della sua completa dissoluzione. Questo disfacimento non significa però la morte cosmica, bensì la dolorosa ma necessaria condizione per l’instaurazione di un mondo nuovo senza dolore, né male, né morte.
Questi caratteri appariranno particolarmente evidenti nel Quarto Libro di Esdra, del quale parleremo più avanti. Anche molti degli scritti degli Esseni ritrovati a Qumran possono però ben figurare nel catalogo di questo affascinante e complesso genere letterario.
Alcuni testi apocalittici
Da notare come i cristiani dei primi secoli fecero largo uso della letteratura apocalittica, utilizzandola nella propria catechesi talvolta alla pari degli stessi testi biblici, come fa la Lettera di Giuda con il Libro di Enoc, e spesso correggendola a loro vantaggio. Parallelamente gli Ebrei della diaspora, nel definire il loro canone delle Scritture, rigettarono ed ignorarono poi totalmente questo tipo di letteratura. Questi libri insomma devono la loro sopravvivenza al solo cristianesimo, che, da parte sua, li rigettò a sua volta e li relegò tra gli apocrifi quando, a sua volta, sistematizzò definitivamente i libri canonici della propria Bibbia.
I testi apocrifi di cui ora ci occuperemo nel dettaglio sono:
- Il Libro di Enoc etiopico
- Il Libro dei Segreti di Enoc
- Il Libro dei Giubilei
- Il Testamento dei Dodici Patriarchi
- L’Assunzione di Mosè
- L’Apocalisse siriaca di Baruc
- Il Quarto Libro di Esdra
I libri di Enoc
Il patriarca Enoc era il candidato ideale per assumere un ruolo importante nella letteratura apocrifa fiorita negli ultimi secoli prima di Cristo e nel primo secolo dell’era cristiana. Oltre a vantare un’indubbia antichità che lo fa vivere in un’epoca mitica e particolarmente suggestiva, esso rappresenta anche il settimo patriarca antidiluviano, ad imitazione del settimo re antidiluviano delta tradizione babilonese, Emmeduranki, destinatario della rivelazione de! segreti divini. E fu così che Enoc si trasformò nel prototipo dell’iniziato ai misteri celesti, diventando il prestanome di tutto un corpus di apocrifi a carattere sapienziale. Di questo vasto corpus sono giunti fino a noi il Libro etiopico di Enoc e il Libro slavo di Enoc.
Il Libro di Enoc etiopico
Il libro etiopico di Enoc è stato definito «una delle maggiori apocalissi giudaiche ». È composto da cinque parti e centocinquanta capitoli di esortazioni e profezie sulla fine dei tempi. II suo nome deriva dall’unica versione in cui ci è pervenuto integro, grazie alla Bibbia etiopica che lo considerava un libro ispirato; nell’antichità era già notissimo, tanto che gli autori cristiani lo citano fin dal Nuovo Testamento.
Si ritiene che abbia un’origine palestinese, in un ambiente vicino al fariseismo. La sua lingua originaria era l’ebraico o l’aramaico: frammenti in queste due lingue sono stati trovati a Qumran. Le parti più antiche (i primi trentadue capitoli) possono risalire alla prima metà del II secolo a.C.; la stesura definitiva è probabilmente anteriore alla presa di Gerusalemme da parte di Pompeo (63 a.C.). La traduzione greca, a partire dalla quale fu realizzata la versione etiopica, nel V o VI secolo, è anteriore alla lettera di Giuda che la cita (14-15). L’angelologia e la demonologia occupano in questo testo un ruolo motto importante, tanto da anticipare l’angelologia e la demonologia cristiane.
Suddivisione del testo
Dopo i primi cinque capitoli che servono da introduzione generale, il Libro etiopico di Enoc viene di solito suddiviso in cinque Libri:
1) il Libro dei Vigilanti (capitoli 6-36), che in termini estremamente drammatici racconta la caduta degli Angeli (chiamati in questi testi Vigilanti perchè insonni ed eternamente predisposti a vigilare sull’intera Creazione). Tutti i peccati degli uomini sarebbero derivati da questo loro “peccato originale” di superbia. La dottrina cristiana della ribellione di Lucifero e della sua cacciata all’Inferno è certamente tributaria a questo libro. La cacciata dei duecento Vigilanti ribelli inizia (capitolo 9) con il ricorso di tre angeli fedeli )Michele, Gabriele, Surian e Urian) ad JHWH, affinché indichi loro come comportarsi; allora il Signore incarica Raffaele e Gabriele di punire i capi degli angeli ribelli e i loro figli (capp. 10-11). Costoro incaricano Enoc, il più giusto tra gli uomini, di annunciare il castigo ai Vigilanti peccatori (cap. 12). Questi, ricevuto l’annuncio, implorano Enoc di intercedere presso il Signore Dio scrivendo una preghiera; mentre la scrive Enoc è assalito dal sonno, ha delle visioni e, ridestatosi, le annuncia ai Vigilanti (cap. 13). I capitoli 14 e 15 contengono queste visioni:
«…Vi dico quel che ho visto (…) La preghiera che ho scritto per voi non sarà ascoltata; (…) Spinto dai venti, dalle stelle e dai fulmini giunsi a una casa di cristallo, parlai con il Signore…»
Nel seguito si descrivono le peregrinazioni di Enoc per i Cieli, guidato dagli Angeli, e la descrizione di una cosmologia fortemente dominata dall’angelologia: praticamente ogni segreto del mondo è svelato a Enoc, chiamato lo Scriba perchè sarebbe stato l’inventore della scrittura, apposta per descrivere agli uomini tutte queste meraviglie celesti.
Nei primi capitoli del Libro dei Vigilanti il protagonista non è Enoc ma suo pronipote Noè. Questo ha fatto pensare all’esistenza, un tempo, di un perduto Libro di Noè, poi confluito in questo testo; una conferma dell’esistenza di quella enochica e di quella noachica come due tradizioni parallele viene anche dal Libro dei Giubilei, che cita testualmente:
«…Come ho trovato scritto nei libri dei miei padri, nelle parole di Enoc e in quelle di Noè…»
I frammenti del presunto Libro di Noè confluiti nel Libro dei Vigilanti sono a loro volta eterogenei, prodotti dalla stratificazione di tradizioni successive: i primi capitoli (6-8) non sembrano credere all’immortalità dell’anima, mentre i successivi (9-11) invece sì.
2) il Libro delle parabole di Enoc (capitoli 37-71). Questo testo è stato oggetto di controversie, perché non si se sia giudaico oppure cristiano, dato che vi ha un ruolo importante il ”Figlio dell’uomo che siede accanto all’Antico di giorni”, appellativi già usati nel libro di Daniele (Dan 7). Certamente in origine si trattava di un’opera autonoma come il perduto Libro di Noè, ed è presumibile che il suo autore conoscesse già tutto l’impianto del Libro di Enoc, il che confermerebbe l’ipotesi dell’inserzione tardiva.
Esso ha punti in comune con gli Oracoli Sibillini, testo apocrifo cristiano scritto tra il II e il IV secolo d.C., e le citazioni della Persia fanno pensare alle campagne contro l’impero romano di Shapur I, il re Sasanide che fece prigioniero l’imperatore Valeriano. Tuttavia vari studiosi contestano l’idea che il Libro delle Parabole sia un’opera cristiana, perchè il suo contenuto (Figlio dell’uomo a parte) non avrebbe alcunché di cristiano, non citando mai la Passione di Cristo, che invece è citata frequentemente nelle interpolazioni cristiane di altre opere apocrife giudaiche. È possibile, dicono anzi questi esegeti, che gli evangelisti conoscessero il Libro delle Parabole e lo abbiano tenuto presente nella redazione dei Vangeli.
A parte il capitolo 37 introduttivo, lo si può dividere a sua volta in tre parti costituite da tre discorsi detti parabole, da cui il titolo; la prima occupa i capitoli 38-44, la seconda i capp. 45-57, la terza i capp. 58-61. Il resto è costituito da ampliamenti, che provengono quasi sicuramente anch’essi dal perduto Libro di Noè.
Secondo alcuni, nel testo originale del Libro di Enoc, il Libro delle Parabole era sostituito dal Libro dei Giganti, che narrava le avventure dei figli dei Vigilanti, i Giganti appunto, secondo quanto attesta il Libro della Genesi (6, 1-4):
«Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro figlie, i figli di Dio [i Vigilanti del Libro di Enoc] videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero. Allora il Signore disse: “Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni.” C’erano sulla terra i giganti a quei tempi, e anche dopo, quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi i famosi eroi dei tempi antichi.»
Da notare come il Libro dei Giganti ricami su questi versetti arcaici, predicendo la morte dei Giganti tra le acque del diluvio. Tra l’altro il Vigilante Šemihaza viene presentato come “penitente”, quindi pentito del proprio peccato che ne ha causato l’espulsione dai Cieli. La teoria dell’Apocatastasi, cioè della “conversione del demonio”, è tema di origine zoroastriana, ma fu sempre rifiutata sia dal giudaismo (lo stesso Libro dei Vigilanti sostiene che gli angeli caduti non hanno speranza di pentimento) che dal cristianesimo. Secondo gli esperti, proprio l’adesione a questa tesi avrebbe causato la sostituzione del Libro dei Giganti con il ben più ortodosso Libro delle Parabole.
3) il Libro dell’Astronomia (capitoli 72-82), secondo alcuni solo un riassunto di un trattato ben più vasto, risalente al III secolo a.C.: il più antico, dunque, di tutto il vasto corpus enochico. Esso spiega il calendario solare di 365 giorni in relazione alle fasi lunari.
4) il Libro dei Sogni (capitoli 83-90). Esso contiene due visioni; la prima riguarda il diluvio universale, la seconda traccia un affresco universale della storia dalla Creazione fino all’avvento escatologico del Regno di Dio, e quindi è più propriamente apocalittica. Come nel libro di Daniele, anche in questo caso i vari popoli che si succedono nella storia del mondo sono rappresentati da animali. Gli eventi narrati si concludono con l’epoca dei Maccabei, e quindi è a questa data che va fatta risalire la composizione del libro.
5) l’Epistola di Enoc (capitoli 91-104). Si pensa risalga al I secolo a.C., riflettendo forse le diatribe tra i due principali partiti giudaici, i Farisei ed i Sadducei. Ci sono alcuni punti di contatto con un’altra opera apocrifa, i Salmi di Salomone, risalenti allo stesso periodo. Questo testo può essere considerato un “Testamento di Enoc” sulla falsariga dei testi di addio cui abbiamo accennato prima, con varie considerazioni morali sulla storia del Popolo Eletto.
Il libro etiopico di Enoc e il Nuovo Testamento
Come si è detto, il libro di Enoc è esplicitamente citato dalla lettera di Giuda, che rimanda più volte ad esso parlando degli Angeli; ma vi sono molti paralleli tra passi del Nuovo Testamento e passi di questo libro. Ecco alcuni esempi.
- «Quando il Figlio dell’uomo sarà assiso sul trono della Sua gloria» (Mt 19, 28) e «Nel vedere questo Figlio di donna assiso sul trono della Sua gloria» (Enoc 62, 5)
- «Il fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli» (Mt 25, 41) e «Quelle catene di ferro sono preparate per le milizie di Azazel» (Enoc 54, 4-5)
- «Sono come angeli del Cielo » (Mc 12, 25) e «Saranno tutti angeli del Cielo» (Enoc 51, 4)
- «Camminiamo nella luce » (Gv 1, 7) e «Camminare nella luce eterna» (Enoc 92, 4)
- «Allora d’improvviso li colpirà la rovina, come le doglie d’una donna incinta» (1 Tess 5, 3) e «Verrà su di loro l’afflizione come di donna che sia nei dolori del parto» (Enoc 62, 4)
- «L’albero della Vita» sia in Apocalisse 2, 7 che in Enoc 25, 4-6
- «Intorno al trono c’erano quattro Esseri Viventi» (Ap 4, 6) e «Vidi sotto le quattro ali del Signore gli spiriti di quattro persone» (Enoc 40, 2)
- «Giorno e notte non cessavano di ripetere…» (Ap 4, 6) e «Non dormivano e stavano in piedi dicendo…» (Enoc 39, 13)
- «Il mare restituì i morti che custodiva, e la morte e gli Inferi resero i morti da loro custoditi» (Ap 20, 13) e «In quei giorni la terra e l’inferno restituiranno quel che è stato loro affidato, e il regno dei morti restituirà ciò che deve» (Enoc 51, 1)
È da notare che l’autore dell’Epistola di Barnaba, Clemente Alessandrino, Ireneo, Tertulliano e l’autore degli Atti di Santa Perpetua e Felicita non solo conoscono il libro di Enoc, ma addirittura lo considerano ispirato. Dopo Cassiano, morto nel 435 d.C., mancano notizie sicure su questo libro, e la sua tradizione viene conservata dalla sola chiesa etiopica, che ce l’ha tramandato.
Il Libro dei Segreti di Enoc
Il libro slavo di Enoc (o Libro dei segreti di Enoc) è un’opera tipicamente apocalittica, scritta in greco nel I secolo dell’era cristiana, da un giudeo o da un giudeo-cristiano palestinese, ma ce ne è pervenuta solo una traduzione in slavo antico. Il testo è giunto a noi in due versioni, una detta “breve” e una “lunga”; M. Solokov, che ha pubblicato il maggior numero dei manoscritti contenenti questo testo, ritiene originaria la versione “lunga”. Invece N. Schmidt nel 1921 sostenne la maggiore antichità della versione “breve”; secondo lui il manoscritto greco poi tradotto in paleoslavo nella versione “breve” sarebbe a sua volta la traduzione di un’opera ebraica o aramaica compilata in Palalestina prima del 70 d.C.; l’originale greco della traduzione “lunga” sarebbe invece posteriore, opera di un ebreo alessandrino che ampliò notevolmente il libro che stava copiando, aggiungendovi motivi caratteristici del pensiero giudaico-ellenistico egiziano.
Alcuni pronomi paleoslavi più arcaici (es. nikŭtože, “nessuno”) deporrebbero a favore della maggiore antichità della versione “breve”. Comunque la traduzione paleoslava deve essere stata effettuata in Macedonia nei secoli X o XI della nostra era, come indica l’analisi linguistica. Il più antico manoscritto del Libro dei Segreti di Enoc però risale solo al XIV secolo.
In questo libro il patriarca Enoc compie un viaggio attraverso i sette cieli e riceve una serie di rivelazioni; in particolare gli viene descritta la creazione del mondo e gli sono svelati i segreti dell’avvenire. Come si vede, siamo nel pieno del genere del “rapimento in cielo” al quale si è accennato in quel che precede. Già nel capitolo 1 si descrive come, giunto al suo 365° anno di vita (il testo riprende dunque Genesi 5, 23-24), al patriarca appaiono due angeli, che gli annunciano l’assunzione in Paradiso:
«Mentre riposavo nel mio letto dormendo, mi apparvero due uomini grandissimi come mai ne avevo visti sulla terra. Il loro viso era come il sole che risplende, i loro occhi come lampade ardenti, dalle loro bocche usciva fuoco, i loro vestiti erano un tessuto di piume, e le loro braccia come ali d’oro; e stavano al capezzale del mio letto. Io mi levai dal sonno, e gli uomini stavano realmente presso di me. Io mi alzai frettolosamente e mi inchinai loro; il mio viso si coprì di brina per il terrore. Gli uomini mi dissero: “Coraggio, Enoc, non aver timore. Il Signore stesso ci a mandati a te, ed ecco, tu oggi sali con noi al Cielo. Dì ai tuoi figli e alle genti della tua casa tutto quello che faranno sulla terra, e che nella tua casa nessuno ti cerchi finchè il Signore ti abbia fatto ritornare da loro.”»
Si noti come la descrizione può avere influenzato la visione del Primo, l’Ultimo e il Vivente nel capitolo 1 dell’Apocalisse di Giovanni; inoltre sembra essere nota, in nuce, la dottrina di un ritorno escatologico di Enoc sulla Terra. Comunque nel capitolo 2 Enoc obbedisce, raduna i suoi figli Matusalemme e Rigim e prende commiato da loro; il brevissimo capitolo 3 ci mostra i due angeli che lo prendono sulle proprie ali e lo conducono fino al settimo cielo. Ecco la suddivisione del libro da qui in poi:
- capitoli 4-6: il Primo Cielo e i fenomeni atmosferici
- capitolo 7: il Secondo Cielo e gli Angeli Apostati
- capitoli 8-10: il Terzo Cielo con il Paradiso preparato per i giusti e gli afflitti, e l’Inferno preparato per i sacrileghi
- capitoli 11-17: il Quarto Cielo e il moto degli astri
- capitolo 18: il Quinto Cielo e gli angeli Egrigori (traduzione dall’ebraico “Vigilanti”), forse gli stessi duecento che avevano abbandonato il Cielo nel Libro di Enoc etiopico, capitolo 9
- capitolo 19: il Sesto Cielo e i sette arcangeli preposti alla vita del cosmo e al loro perfetto funzionamento, come i controllori di un immenso orologio
- capitoli 20-23: il Settimo Cielo con il Signore assiso in mezzo alla corte celeste (forse a questo passo si è ispirato Dionigi l’Areopagita, che poi a sua volta ha influenzato Dante Alighieri)
Così nel capitolo 24 si rivolge il Signore ad Enoc:
«Tutto ciò che hai visto, Enoc, tutto ciò che sta fermo e che si muove, e che è stato compiuto da Me, io te lo spiegherò…»
Inizia così un lungo discorso di Dio, che svela al patriarca scrittore i segreti della Creazione, e gli profetizza la mandata del diluvio (capitoli 24-36). Seguono altre rivelazioni di ciò che Enoc ha visto in Paradiso (capitoli 37-42), condotte con toni pittoreschi ed iperboli magniloquenti, in puro stile “apocalittico”, ed un altro lungo discorso (capitoli 43-63) in cui Enoc parla in prima persona ai lettori, ricordando loro l’ineluttabilità del Giudizio ed invitandoli alla conversione; si parla persino di una futura discesa di Dio sulla terra (58, 1). L’autore dimostra interesse per il Tempio di Gerusalemme (51, 4), anche se è critico nei confronti del culto ivi praticato. Il capitolo 64 presenta una cesura netta con ciò che precede, e sembra fare ritorno all’inizio:
«Accadde che, quando Enoc ebbe parlato ai suoi figli e ai principi del popolo, tutto il popolo e tutti i suoi vicini udirono che il Signore chiamava Enoc. Si consultarono tutti dicendo: “Andiamo a salutare Enoc”. Si radunaron fino a duemila uomini e vennero fino al luogo chiamato Azuchan dove c’erano Enoc e i suoi figli e gli anziani del popolo. Salutarono Enoc dicendo: “Tu benedetto davanti al Signore re eterno, benedici il tuo popolo e glorificaci davanti al volto di Dio, perchè Egli ti ha scelto come colui che toglie i nostri peccati.”»
Enoc risponde dicendo: «Ascoltate, figli miei…» Cominciando dalla Creazione, snocciola un altro discorso “apocalittico”, che occupa i capitoli 65 e 66, parlando dei primi e degli ultimi tempi; nel capitolo 67, mentre ancora sta parlando, Dio fa scendere le tenebre sul mondo e gli Angeli rapiscono Enoc al Cielo. Una seconda versione dell’ascensione, dunque, indipendente dalla prima. I capitoli 68-77 contengono invece vicende di Matusalemme, primogenito di Enoc, anch’egli beneficiario di visioni e di ammaestramenti al suo popolo, riguardanti ancora una volta il tema del diluvio; in queste vicende sale alla ribalta anche Noè. Suo fratello Nir ha una moglie sterile, Sofonim, che a somiglianza di altri personaggi dei libri storici biblici (Sansone, Samuele, lo stesso Gesù) è beneficata con un figlio.
Nir è convinto che il figlio non sia suo, e rampogna la moglie, che muore di colpo, ma il figlio esce dal suo grembo già «compiuto nel corpo». A questo figlio è imposto il nome di Melchidesec che, rapito dall’arcangelo Michele, è posto nell’Eden affinché scampi al diluvio. Presumibilmente l’autore identifica in lui il misterioso re di Salem (Gerusalemme) citato in Genesi 14, 18-20 ed anticipatore dell’Eucaristia. Qualcuno pensa che, accanto alla tradizione enochica e a quella noachica esistesse anche un “Ciclo di Melchisedec”; ad esso fa riferimento anche il Libro dei Giubilei, di cui parleremo subito dopo.
In alcuni manoscritti a questa vicenda segue il racconto del diluvio, ma il testo principale termina a questo punto con le semplici parole «Al nostro Dio gloria adesso e sempre nei secoli dei secoli. Amen»
Precetto fondamentale del Libro dei Segreti di Enoc è l’amore per tutti gli esseri viventi (capitolo 44), inclusi gli animali, che sono detti avere un anima come l’uomo, anche se non immortale. L’autore sembra insistere su questo amore universale più che sulla Legge, e non nomina mai il Messia. Non è però necessario ipotizzare influssi cristiani: si tratta di un atteggiamento non nuovo nel pensiero giudaico, e lo si ritrova anche nel Testamento dei Dodici Patriarchi. Nel complesso la figura di Enoc risulta ridimensionata rispetto al Libro di Enoc etiopico: qui Enoc è solo il rivelatore dei segreti di Dio agli uomini, mentre il vero sacerdote è solo l’enigmatico Melchisedec, figlio verginale (come Gesù) di Sofonim. Questo mette in evidente rapporto il Libro dei Segreti di Enoc con la Lettera agli Ebrei, che parla di Melchisedec come il rappresentante di una stirpe sacerdotale diversa da quella di Levi, di cui Gesù Cristo è il rappresentante più alto (Eb 6, 19-20). Ciò ha suggerito a più di un commentatore che il Libro dei Segreti di Enoc e la Lettera agli Ebrei siano opere molto vicine nel tempo.
Il libro dei Giubilei
Il Libro dei Giubilei è un libro apocrifo importantissimo per via della sua impostazione cronologica, che suddivide le ere del mondo in “giubilei”, ognuno dei quali è un periodo di quarantanove anni.
La serie degli avvenimenti narrati va dal capitolo 1 della Genesi fino al capitolo 12 dell’Esodo. Ogni giubileo è a sua volta diviso in sette serie di sette anni ciascuno. La presentazione di un simile calendario, derivato a sua volta da quello in uso in Palestina, indica il carattere normativo tipico dell’opera (”halakah”). L’istituzione di un calendario giubilare garantiva l’osservanza delle feste religiose e dei giorni sacri nelle loro date precise, e doveva ribadire l’unicità di Israele in mezzo a tutti gli altri popoli in quanto popolo dell’Alleanza.
Quest’opera è conosciuta anche con il nome di ”Piccola Genesi”, perché parafrasa gran parte della Genesi e dell’Esodo, con inserzioni apocrife riguardanti alcuni episodi. Assai importanti sono però le informazioni e gli espedienti con le quali si tenta di spiegare le origini delle prescrizioni rituali e dei costumi giudaici contemporanei all’autore. L’opera attribuisce un’origine più antica alla Legge Mosaica e a un gran numero di prescrizioni legali del Levitico: sostiene infatti che i patriarchi della Genesi osservavano già le leggi e le festività giudaiche, come la festa di ”Sukkot” o delle Capanne, che in realtà fu istituita solo in epoca più tarda. Questo serve a conferire maggior sacralità alle festività stesse. È lo stesso procedimento in base al quale, in Gen 2,2-3, l’istituzione del Sabato (una festa tipicamente ebraica) è fatta risalire addirittura al settimo giorno della Creazione. Così, nel Libro dei Giubilei si trova nominata per la prima volta l’utilizzo del vino nel pasto pasquale ebraico.
Nella sua forma definitiva, il Libro dei Giubilei fu scritto probabilmente verso l’anno 100 a.C., ma secondo alcuni anche prima; tuttavia fa sue tradizioni assai più antiche. La sua preoccupazione di conservatorismo religioso e il suo isolazionismo nella fedeltà ad JHWH hanno fatto si che fosse utilizzato dagli Esseni di Qumran: lo si trova infatti citato nel ”Documento di Damasco”, una delle loro opere maggiori; inoltre numerosi frammenti della sua primitiva versione ebraica sono stati trovati nella biblioteca scoperta a Qumran.
II Libro dei Giubilei è stato conservato integralmente solo in una traduzione etiopica, perchè con il Libro di Enoc figurava come testo sacro nella Bibbia etiopica. Delle versioni ebraica e greca si possiedono solo frammenti.
Il Testamento dei Dodici Patriarchi
Si tratta di una vasta raccolta di dodici discorsi «testamentari» messi in bocca ai figli di Giacobbe e indirizzati ai loro discendenti, con l’intento di esortarli alla pietà e alla giustizia; essi evocano le benedizioni di Giacobbe (Gen 49). Nella sua forma attuale ogni Testamento segue uno stesso schema letterario:
- un’introduzione pseudo-storica che rappresenta una variazione sul tema della vita del patriarca secondo la Genesi; variazioni e aggiunte analoghe a quelle del Libro dei Giubilei, conosciuto dell’autore;
- una ampia sezione parenetica (applicazione e trasposizione in lezioni morali della vicenda storica ricordata subito prima);
- una breve conclusione messianica e apocalittica (eccetto che per Gad, in cui si ha una profezia sull’avvenire della tribù con una esortazione ad osservare la Legge e a restare sottomessi a Giuda, e ancor più a Levi).
La seconda sezione è, agli occhi dell’autore, la più importante; sul tipo di un trattato morale, testimonia l’ideale elevato che ispirava il gruppo dal quale proviene. Tutto ciò dice l’unita del corpus, cosi come lo leggiamo nella versione greca che ce l’ha trasmesso Integralmente.
I problemi posti da quest’opera sono molto complessi. Innanzitutto è molto difficile ricostruire la storia della sua composizione: dietro la sua apparente unità, si rivela un’opera colossale di compilazione. L’individuazione delle fonti non e facile: nella Genizah del Cairo sono stati scoperti frammenti aramaici del Testamento di Levi; mentre altri frammenti sono stati trovati anche nelle grotte I e IV di Qumran: in parte corrispondono, ma il testo greco del Testamento di Levi sembra un riassunto dell’originale aramaico. Nella stessa grotta IV è stato ritrovato un testo ebraico del Testamento di Neftali, più ampio del suo omologo greco (1, 6-12). Varie tesi si contrappongono intorno all’ambiente, all’autore, alla data e alla lingua dell’opera:
- una tesi è quella delle interpolazioni cristiane in un’opera giudaica precristiana;
- secondo la tesi cristiana, un giudeo-cristiano avrebbe messo insieme la raccolta a partire dall’uno o dall’altro Testamento esistente;
- una terza tesi vuole che questa raccolta sia un’opera degli Esseni.
È necessario attribuire grande importanza allo sfondo giudaico, a causa dell’obbligo imposto a tutte le tribù di sottomettersi a Levi e a Giuda, risalente ad una data situata tra il 130 e il 63 a.C., in un’epoca in cui gli Asmonei, sacerdoti o re, detenevano o rivendicavano il potere. Indubbie sono comunque le interpolazioni, i ritocchi e le modifiche cristiane apportate nel II secolo d.C., che si ritrovano nell’ultima redazione o nella traduzione in greco dell’originale semitico, aramaico o ebraico.
Assunzione di Mosè
Si chiama cosi quella che probabilmente era soltanto una parte di un’opera più vasta, che in origine doveva comprendere due libri distinti: il Testamento di Mosè e l’Assunzione di Mosè. Il solo testo che noi oggi possediamo appartiene al genere del «testamento», e presumibilmente va identificato con la prima delle due opere originarie. L’Assunzione di Mosè che noi possediamo contiene una profezia di tipo apocalittico; Mosè l’avrebbe redatta e lasciata al suo successore, Giosuè, prima di incamminarsi sul monte Nebo e morirvi dopo aver contemplato di lontano la Terra Promessa (Deuteronomio 34).
L’Assunzione descrive la storia del Popolo Eletto, dall’entrata nella Terra di Canaan fino alla fine del tempi, ma in realtà fino al periodo in cui è vissuto l’autore dell’opera. Questo testo viene di solito fatto risalire all’inizio del I secolo d.C., e precisamente tra il 4 a.C. (Erode il Grande è già morto e il capitolo 3 contiene un riassunto della sua vita e un severo giudizio su di essa) e il 30 d.C. (il Tempio di Gerusalemme e ancora in piedi). Risulta dunque contemporaneo alla vita di Gesù Cristo; è stato composto probabilmente in ambiente farisaico, visto che vi si leggono ostilità verso i Sadducei ed un vivo nazionalismo. Redatta in ebraico o in aramaico, quest’opera ci è rimasta in una traduzione latina, eseguita a sua volta su una versione greca di cui si trovano tracce nei Padri greci (ad es. Origene).
Questo testo riflette le credenze popolari relative a Mosè in circolazione nel tardo giudaismo. Per gli Ebrei, infatti, Mose era l’unico rivelatore della Parola di Dio agli uomini; anzi, a lui era attribuita ogni scrittura e tradizione, e talora anche ogni traduzione. Era inoltre l’unico profeta, fonte di tutti i profeti che lo seguirono, ed il cui compito fu quello di trasmettere e di interpretare le sue parole e i suoi scritti. Di qui si deduce che l’evento della morte di Mosè, padre della Torah e dell’ebraismo, segnava agli occhi dell’ebreo una specie di rottura radicale della storia, un po’ come per i cristiani è l’avvento nel mondo di Gesù (a.C. e d.C.). Questa rottura si ricollegava ad un’altra che Israele vedeva verificata nella sua storia: la perdita delle basi nazionali e dell’indipendenza politica, considerata parte integrante delle promesse messianiche al re Davide. Per avere un’idea del carattere apocalittico del suddetto Testamento, si legga questo brano del suo capitolo X e ultimo, e lo si confronti con il capitolo 13 del Vangelo di Marco:
“Allora il Suo regno si manifesterà su tutta la creazione.
Allora sarà proprio finita per il diavolo, e, insieme a lui, per la tristezza. Allora ci sarà 1’investitura dell’inviato che nei cieli e stato stabilito; subito egli li vendicherà dei loro nemici. Poiché dal suo Trono regale si alzerà il Celeste e uscirà dalla sua santa Dimora, infiammato di collera per amore dei suoi figli. E la terra tremerà, fino alle sue estremità sarà scossa, e le alte montagne saranno abbassate, saranno scosse e sprofonderanno nelle valli.
II sole cesserà di dare la sua luce; tenebre diverranno i corni della luna: essi saranno spezzati e la luna si muterà tutta in sangue; sconvolta sarà 1’orbita delle stelle. Il mare si ritirerà fino all’abisso, le sorgenti d’acqua si inaridiranno e i fiumi si prosciugheranno interamente. Poiché si alzerà il Dio Altissimo, lui solo eterno; e apparirà per punire le nazioni e distruggere tutti i loro idoli.
Allora, Israele, tu sarai beato! Sulla nuca e sulle ali dell’aquila salirai, ed esse si allargheranno. E Dio ti solleverà; nel cielo delle stelle, egli ti porrà nel luogo della loro dimora. E guardando dall’alto tu vedrai i tuoi nemici sulla terra e ti rallegrerai riconoscendoli.
E, rendendo grazie a Lui, lo confesserai il tuo creatore. E tu, Giosue, figlio di Nave, conserva queste parole e questo libro; poiché dopo che io sarò accolto nella morte fino alla sua venuta ci saranno duecentocinquanta tempi. Ma io sto per andare a dormire con i miei padri…”
Apocalisse siriaca di Baruc
Come Enoc, Mosè ed Esdra, anche Baruc, figlio di Neri e segretario di Geremia, fu nel giudaismo immediatamente precristiano il protagonista e l’ispiratore di tutta una serie di opere letterarie apocrife, poiché anche su questo personaggio gli Ebrei tramandavano un insieme di significative leggende. Tra di esse, va ricordata soprattutto l’Apocalisse siriaca di Baruc, la quale deve il suo titolo al fatto che fu conservato solo in lingua siriaca in un manoscritto della Peschitto (la Bibbia siriaca) del VI secolo. Questa traduzione siriaca, fatta su una versione greca di cui si possiedono solo pochi frammenti, risale certamente al III o IV secolo d.C.
La lingua originaria di questa apocalisse era l’ebraico o l’aramaico. La mentalità che vi è riflessa è farisaica, di ispirazione messianica ed escatologica. La data di composizione va situata tra il 75 e il 100 d.C., dato che la distruzione del Tempio (70 d.C.) è evocata in molte pagine.
Il libro comprende sette parti. Inizia con questa domanda preoccupante: perché il popolo di Dio soffre, mentre i suoi nemici prosperano? In tutta risposta Dio rivela a Baruc che il mondo futuro sarà riservato ai giusti, e che la distruzione di Sion affretterà l’avvento del mondo futuro.
L’autore descrive tutti i disastri che precedono la venuta dell’era messianica. L’ultimo dei quattro imperi mondiali citati nel libro di Daniele, che secondo l’autore del libro è l’Impero Romano, apparirà e sarà distrutto, e verrà sostituito dal Regno dei Messia che durerà per sempre. Stretta è la parentela tra quest’opera e il Quarto Libro di Esdra: i punti di contatto tra di essi sono evidenti, così come le concordanze con il Nuovo Testamento: si possono riscontrare dei paralleli con la dottrina escatologica di San Paolo, ed a sorpresa si ritrovano anche accenni che ricordano i racconti evangelici del battesimo di Gesù (i «cieli aperti» e la «voce dei cielo») o della tentazione net deserto (il dono della manna attraverso il Messia e l’immagine dei Messia che contempla la terra dall’alto della montagna). L’origine di questi punti di convergenza è tuttora oggetto di vivaci discussioni.
Quarto Libro di Esdra
Tra le opere dell’abbondante letteratura che il giudaismo attribuì a Esdra va sottolineato il cosiddetto Quarto Libro pervenutoci sotto il suo nome, probabilmente l’opera giudaica non biblica più diffusa e utilizzata negli ambienti cristiani primitivi. La sua parentela con l’Apocalisse siriaca di Baruc, come detto, è davvero stretta.
La data della sua composizione è generalmente fatta risalire agli ultimi anni del primo secolo d.C. L’autore, senza dubbio fariseo, può non essere necessariamente stato un Palestinese: i suoi personaggi fanno frequenti riferimenti a soggiorni all’estero. La presa di Gerusalemme da parte di Tito ha un posto molto importante nelle visioni narrate dal libro: si comprende facilmente come l’anonimo autore abbia scelto come protagonista e firmatario non uno degli antichi patriarchi di Israele stile Mosè ed Enoc, ma un personaggio come Esdra che visse dopo la prima distruzione di Gerusalemme da parte dei Caldei nel 587 a.C., disastro simile a quello di cui egli stesso è stato testimone net 70 d.C.
Di questo libro si possiedono almeno sei traduzioni. Esse sono state eseguite su una versione greca, oggi del tutto scomparsa, dell’originale ebraico o aramaico. La migliore è la traduzione latina: la si trova in appendice a diverse edizioni della Vulgata, a testimonianza del fatto che i primi cristiani avevano ipotizzato che potesse trattarsi di un libro ispirato.
Questa Apocalisse è composta da sette visioni. Nella prima e nella terza sono affrontati i problemi dei peccato e della salvezza, e vi si riscontrano affinità con l’epistolario paolino. Nella quinta si legge una reinterpretazione della visione dei capitolo 7 del libro di Daniele: l’aquila a tre teste che esce dal mare diventa simbolo di Roma, rappresenta forse i tre sovrani della dinastia Flavia responsabile dell’incendio del Tempio (Vespasiano, Tito e Domiziano) e, se è così, aiuta a datare l’opera. Nella sesta visione (capitolo 13) si vede il Messia che appare come un Uomo che sale dal mare, schiaccia le potenze nemiche, cosmiche e terrestri, e libera gli eletti: si può vedervi forse il «Figlio dell’Uomo» di Daniele 7, 13, un titolo questo che anche Gesù attribuì a sé stesso.
Ecco un brano significativo di questo testo:
«Dopo questi avvenimenti, io riposavo sotto un albero, quando una voce che proveniva dalle piante del cappero mi disse: “Esdra, Esdra!” lo risposi: “Eccomi, Signore!” e mi alzai in piedi.
Essa mi disse: “Con una rivelazione mi sono rivelato nel Roveto parlando a Mosè, quando il mio popolo era schiavo in Egitto. Poi, condottolo al monte Sinai, lo trentenni presso di me quaranta giorni e quaranta notti per rivelargli molte meraviglie: gli scoprii i segreti sull’origine e la fine del tempi, ordinandogli di dire queste cose in pubblico e queste altre in segreto. Oggi, io ti dico: Esdra, i segni che ti ho mostrato, i segni che tu hai visto spiegali subito ai sapienti e gli scribi li conservino. Poiché tu stai per essere rapito in cielo lontano dagli uomini, per dimorare con il mio servo e con i tuoi simili fino alla fine dei tempi. Il mondo infatti ha perduto la sua giovinezza. I tempi si avvicinano ormai alla loro decrepitezza.
Il mondo è stato diviso in dieci parti; si è giunti al tempo della decima parte, e resta ormai solo meta di questa decima parte. E ora metti in ordine la tua casa, ammonisci il tuo popolo, consola i disgraziati e correggi i sapienti. Allontanati da questa vita di corruzione e sfuggi alle reti di morte. Fai uscire il soffio degli uomini ed esala un respiro d’infermità. Allontana gli affari del tuo popolo e le pene del tuo cuore: abbi fretta di emigrare da questo mondo. Poiché se oggi tu vedi molte prove, più numerosi ancora saranno i mali che verranno: man mano che il mondo va verso il declino nella sua vecchiaia, tanto più numerosi i mali si accumulano su quelli che lo abitano. Dopo di ciò, tra poco, gli insensati saranno messi da parte per la loro rovina, poiché essi bruceranno net fuoco e il Giudice che tu hai contemplato s’avvicina: in fretta arriva l’Uomo che tu hai visto in sogno.”»
Come si vede, esso rientra perfettamente nel genere del “rapimento in cielo” di cui si è già parlato. Ma non basta, perchè lo stesso testo aggiunge (a parlare è sempre JHWH):
«Egli mi rispose e disse: “Va’ e raduna il popolo! Tu gli dirai di non cercarti per quaranta giorni.i In quanto a te, prepara un gran numero di tavolette, prendi con te Seraia, Debaria, Selemia, Elkana e Asiele: tutti e cinque conoscono bene la scrittura crittografica; poi vieni qui. Io accenderò net tuo cuore la luce delta sapienza ed essa non si spegnerà prima che sia concluso ciò che lo devi scrivere! Quando sarà terminata, una parte la dirai in pubblico e una parte, in segreto, ai sapienti.” (…) Allora io presi i cinque uomini, come l’Angelo aveva ordinato. Arrivammo in un campo e lì ci fermammo. Il giorno dopo giunse una voce che mi chlamò e disse: “Esdra! Esdra!” Alla mia risposta: “Eccomi”, riprese: “Apri la bocca e bevi ciò che voglio farti bere.”
Aprendo la bocca, vidi che mi veniva offerto un calice che sembrava ripieno d’acqua colore del fuoco. Lo presi e lo bevvi. Mentre lo bevevo il mio cuore faceva sgorgare l’intelligenza e il mio seno scaturire la saggezza. (…) I cinque uomini si misero a scrivere in caratteri crittografici ciò che dicevo: le lettere di questa scrittura nessuno le conosce. Rimanemmo lì quaranta giorni e furono scritti novantaquattro libri. Quando furono trascorsi i quaranta giorni, l’Altissimo mi parlò e disse: “I ventiquattro libri che sono stati scritti per primi tu li svelerai in modo che tutti possano leggerli, sapienti e persone per nulla sapienti. Gli altri settanta libri tu li velerai e li trasmetterai solo ai sapienti del Popolo. In essi infatti si trova la sorgente dell’intelligenza e la fontana della saggezza, canale dei ricordi e fiumi di scienza”. E cosi io feci» (IV Libro di Esdra 14)
Questi brani mettono bene in evidenza tutti i caratteri tipici di un’Apocalisse. Esdra ripete l’opera di Mosè, lo scrittore della Torah e l’ispiratore di tutti i testi successivi biblici ed extrabiblici, compilando prima i ventiquattro libri palesi, cioè quello che nel suo complesso verrà chiamato Antico Testamento, e poi i settanta nuovi libri che rimangono coperti dal segreto e saranno rivelati solo alla fine dei tempi. Si noti che una leggenda postesilica asseriva che la Torah fosse andata completamente perduta al momento della distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 587 a.C.; di qui la necessità per Esdra di ricompilarla sotto la guida divina. Inoltre, come alcuni esegeti hanno fatto notare, sorprendentemente la parola ebraica che significa “segreto”, «swd», ha un valore numerico complessivo delle sue lettere pari a a 60 + 6 + 4 = 70 !!
Ma non è tutto. Infatti in questi brani si ritrova il concetto del dio scriba, influenzato in particolare dal succitato dio babilonese Nabu, lo scriba degli déi ritenuto l’inventore della scrittura cuneiforme, che per la sua complessità era accessibile ai soli iniziati: tale scrittura era depositaria della scienza sacra e profana, delle preghiere, dei riti, delle procedure di magia e di divinazione, insomma di tutta la tradizione religiosa e storica del paese. Le somiglianze tra Nabu e Esdra sono sorprendenti: dopo l’Esilio, in Palestina l’alfabeto fenicio era stato sostituito dai caratteri aramaici (i caratteri detti “quadrati” ancor oggi in uso), ed Esdra era considerato dalla tradizione il loro inventore.
È evidente poi l’ispirazione dei culti dionisiaci, per via della presenza del vino net corpo, come testimoniano le parole « …io presi e bevvi il calice. E, mentre lo bevevo, il mio cuore faceva sgorgare l’intelligenza e il mio seno scaturire la saggezza ».
Infine, nel Quarto Libro di Esdra è presente il “mito delle età” di cui parlò per primo Esiodo (Vlll secolo a.C.), secondo cui sulla terra si sarebbero succedute cinque età, ognuna delle quali popolata da una razza di uomini che, rispetto alla precedente, avrebbe goduto di un numero assai inferiore di qualità: cosi si andava dall’età dell’oro (la prima), quasi divina, alla razza dell’età del ferro (la quinta ed ultima), totalmente degenerata; Esiodo termina la sua descrizione sinistra della storia umana con queste parole prive di speranza:
«Non ci sarà alcun rimedio contro il male»
Alla luce del mito esiodeo delle età si comprendono le parole di Esdra: «Il mondo ha infatti perduto la sua giovinezza. I tempi si avvicinano ormai alla loro decrepitezza (…) Si è giunti al tempo della decima parte (…)». Tuttavia, nella visione apocalittica il quadro pessimistico della fatale decadenza umana si capovolge, e nella morte stessa del mondo presente si ha la nascita di un mondo nuovo. Un concetto (“la nuova Gerusalemme”) che si ritroverà anche nell’Apocalisse di Giovanni.
prof. Franco Maria Boschetto