Mentre in questi giorni arriva un’altra tranche dei fondi Sure il cosiddetto Recovery Fund (o più correttamente pacchetto NextGenerationEU) rischia di rimanere bloccato dalle discussioni sull’approvazione del bilancio europeo: una battuta d’arresto che rischia di danneggiare soprattutto l’Italia, prima destinataria del piano di salvataggio ideato dall’Ue. Sia come sia, i fondi europei (oggetto le scorse settimane di un Piano nazionale di ripresa e resilienza varato dal governo) potrebbero essere l’ultima prova d’appello per riportare in carreggiata un’economia che, come quella italiana, sembra da anni destinata al declino. “Farei innanzitutto una premessa – spiega a Il Bo Live Lorenzo Forni, economista presso l’università di Padova con trascorsi importanti al Fondo Monetario Internazionale e all’ufficio studi della Banca d’Italia –. C’è differenza tra parlare di tasso di crescita economica nel lungo periodo e di livello del pil, che può alzarsi o abbassarsi temporaneamente anche per ragioni transitorie come, appunto, una pandemia”.
Le difficoltà italiane hanno radici profonde e per tornare un buon tasso di crescita, secondo Forni, c’è bisogno non soltanto di helicopter money (secondo un’espressione coniata da Milton Friedman nel 1969) che droghi spese e consumi, ma di un piano di investimenti per sviluppare la produttività del sistema, ovvero la Total Factor Productivity (TFP): “Visto che in tempi brevi non si può variare significativamente il livello degli input (come capitale, numero di lavoratori ed energia) la cosa più importante è lavorare per rendere sempre più efficiente la combinazione dei fattori della produzione, con l’obiettivo di riuscire ogni anno a produrre di più e meglio”.
“Il discorso può sembrare astratto ma in Italia c’è un largo consenso su alcune riforme che permetterebbero di tornare a crescere – continua Forni –. Un primo aspetto da migliorare è il cosiddetto business climate, in modo da rendere l’attività di impresa più semplice e da favorire gli investimenti in ricerca e sviluppo. Questo però passa attraverso riforme come quelle della giustizia e dei procedimenti amministrativi, che rendano più certi e trasparenti i rapporti con la Pa e i tempi di esecuzione dei contratti. Ci sono poi altri problemi, come ad esempio l’annosa questione della scuola e in parte dell’università: qui la sfida è soprattutto quella di riuscire ad elevare il livello di istruzione e di competenze dei futuri lavoratori”.
Ripartire insomma dal cosiddetto capitale umano? “Umano e ovviamente anche fisico: tutti i giorni vediamo l’impatto enorme sulla nostra vita degli investimenti sulle reti e i collegamenti, da internet veloce alle ferrovie. Pensiamo ad esempio all’alta velocità, a come ha reso più facile lavorare e spostarsi”. L’importante è riuscire a separare il tasso di crescita dalla spesa pubblica: “Possiamo farla crescere ma non per sempre, a meno di non aumentare prima o poi anche le tasse, con gli effetti immaginabili su investimenti e consumi” conclude Forni.
Anche perché ‘i soldi dell’Europa’ da soli non basteranno a salvarci: “Si tratta in previsione di cica 750 miliardi, più o meno il 5% del Pil europeo spalmato su un arco di cinque-sei anni, ovvero meno dell’1% all’anno. Certo all’Italia dovrebbe arrivare la quota maggiore del Recovery Fund, a cui si aggiungono altre misure come Sure ed eventualmente il Mes; bisogna però prima riuscire a prenderli e soprattutto spenderli: sono note le nostre storiche difficoltà nella pianificazione e nell’esecuzione dei programmi di investimento”.
Un’idea per aiutare le piccole imprese
I fondi europei insomma possono essere una svolta, a patto di non affidarsi solo ad essi e di non buttarli in bonus e iniziative a pioggia dal dubbio ritorno. È d’accordo Luciano Greco, docente di scienza delle finanze a Padova e membro del Criep, joint venture scientifica promossa dagli studiosi di scienza delle finanze e di economia pubblica delle università del Veneto: “209 miliardi sono tanti ma da soli non bastano a salvare il Paese. E soprattutto avremo gli occhi di tutti addosso: se sbagliamo stavolta è un disastro”.
Che fare quindi per mettere a frutto i finanziamenti ed evitare che si trasformino negli ennesimi debiti che zavorrano la nostra economia? Per gli esperti del Criep si potrebbe ad esempio impiegare per provare a risolvere uno dei problemi storici dell’apparato produttivo italiano: la scarsa capitalizzazione delle aziende, in particolare medie e piccole. “Se ne parla poco ma è una questione decisiva per il rilancio del Paese – spiega l’economista –. Per ora la caduta di redditività è stata contrastata dalla politica monetaria della Bce e dalle garanzie concesse dallo Stato italiano sui prestiti: sotto una certa cifra le piccole imprese possono chiedere una liquidità garantita a 100% dallo Stato”. Si tratta del meccanismo da centinaia di miliardi di euro previsto dal cosiddetto Decreto liquidità, di cui si è discusso anche a proposito del prestito da 6,3 miliardi concesso a FCA e garantito appunto all’80% dallo Stato italiano.
“Nell’immediato non si poteva fare diversamente per evitare la perdita capacità produttiva, come ha scritto Mario Draghi sul Financial Times lo scorso marzo – continua Greco –. Adesso però qual è il problema? Con la crescita enorme dell’indebitamento molte imprese nel medio e lungo periodo si troveranno in condizioni precarie. Se già l’anno scorso erano il 6% le aziende con un patrimonio netto negativo quest’anno ci si aspetta di arrivare a una cifra compresa tra il 9 e il 12%. Si tratta di un numero enorme di zombie firms, aziende praticamente fallite ma tenute in vita dal credito facile erogato da banche sussidiate dallo Stato e dai tassi di interesse negativi stabiliti dalle banche centrali”. Una vera e propria bomba a orologeria già innescata ben prima del 2008 e che non riguarda solo l’economia italiana, ma che oggi attraverso i crediti deteriorati mette a rischio la stabilità delle banche e, in ultima istanza, delle finanze pubbliche.
Che fare allora per abbassare l’indebitamento e allo stesso tempo dotare le imprese degli strumenti per affrontare la crisi? Una possibilità, secondo il Criep, potrebbe venire dalla trasformazione di parte del debito delle imprese in capitale di rischio. Per Luciano Greco “anche l’Iri salvava imprese e le ricapitalizzava per rimetterle sul mercato, e in parte lo sta facendo anche Cassa Depositi e Prestiti. Semmai il problema è come intervenire sulle Pmi”. Con una triplice sfida: evitare di buttare soldi in imprese decotte, attrarre capitali e allo stesso tempo evitare una commistione eccessiva tra affari e politica. “L’idea è di creare un Fondo per la ricapitalizzazione e la ristrutturazione delle imprese (‘Fondo 2Ri’) costituito da Stato, banche e altri investitori istituzionali come Cdp, Banca Europea degli Investimenti, fondazioni ex bancarie, fondi pensione e di investimento. Una fetta dei debiti sarebbe trasformata in partecipazioni che verrebbero gestite in maniera non speculativa da soggetti qualificati per un periodo medio-lungo: magari per un decennio, in modo da dare il tempo alle imprese di ristrutturarsi e tornare a crescere”.
Un circolo virtuoso che favorirebbe imprese, banche, investitori privati e operatori del settore e in definitiva anche lo Stato, che recupererebbe il denaro investito ricollocando sul mercato le quote delle aziende risanate. Il progetto, descritto recentemente anche in un articolo pubblicato su Lavoce.info, ha destato interesse sia negli uffici dei ministeri che presso le categorie economiche e sarà oggetto il 23 novembre di un webinar dove i ricercatori del Criep si confronteranno con esperti del mondo istituzionale, bancario, imprenditoriale e accademico. “Lo scoglio più difficile da superare è soprattutto la mentalità dei piccoli imprenditori – conclude Greco –. La posta in giorno però è grande: rilanciare l’economia con un aiuto pubblico ma secondo una logica di mercato, favorendo la riconversione industriale del Paese”.
Daniele Mont D’Arpizio