Nel corso dei secoli numerose soluzioni da parte dei padri apologisti sono state trovate per conciliare il riferimento ai fratelli di Gesù con la verginità mariana. Primo fra tutti, Epifanio ritenne che i cosiddetti “fratelli” di Gesù fossero in realtà fratellastri, figli di Giuseppe avuti da un matrimonio precedente. Tale soluzione non risulta convincente per due motivi. Per prima cosa non tiene conto del contesto naturale, immediato dei passi relativi ai fratelli (cfr. Lc 8: 19-21, Mt 12: 46-50 ecc.). L’impressione è che si tratti delle prime nozze sia per quanto riguarda Maria che Giuseppe. Il secondo motivo è che questa giustificazione di Epifanio deriva direttamente da un apocrifo, il Protovangelo di Giacomo, decisamente poco attendibile e affatto impreciso sugli usi, i costumi e le usanze giudaiche dell’epoca. Di fatto la soluzione di Epifanio risulta del tutto arbitraria e, come stiamo per dimostrare, per nulla attendibile filologicamente.
Una soluzione meno scorretta, tesa a giustificare il dogma della verginità mariana, fu successivamente trovata da Girolamo nel IV sec. d.C. e ancora oggi ritenuta valida dalla Chiesa cattolica – diversamente dalla Chiesa protestante, che ritiene che i “fratelli” di Gesù fossero fratelli germani, e dalla Chiesa ortodossa, che li ritiene fratellastri. La soluzione di Girolamo prevedeva, difatti, che la parola greca per “fratello” (adelfòs) stesse a intendere “cugino”, secondo un presunto “uso semitico” desunto dall’Antico Testamento. In effetti non si può negare che nella Septuaginta (la versione della Bibbia in lingua greca, tradotta dall’aramaico al greco) il termine greco “adelfòs”, che traduce l’ebraico “ah” e l’aramaico “aha”, assuma, dal punto di vista semantico, un significato piuttosto ampio, teso a significare una non precisata relazione di parentela (cfr. Gen 24: 48 29: 12; ecc.). Tuttavia è anche vero che vi è un solo caso certo in tutta la Bibbia, e precisamente nell’Antico Testamento, in cui “adelfòs” viene utilizzato nella accezione di “cugino” richiesta dalla soluzione di Girolamo (ci riferiamo al caso di 1 Cr 23: 22), dove peraltro la corretta interpretazione da dare ad “adelfòs” viene chiarita dallo autore del brano stesso attraverso una accurata perifrasi. Pertanto l’equivalenza tra “adelfòs” e “cugino” nell’Antico Testamento non può assolutamente essere data per scontata.
Ad onta di ciò bisogna comunque evidenziare che, a differenza dell’Antico Testamento, il Nuovo Testamento non è una traduzione greca e pertanto quando nel canone neotestamentario ricorre il termine “adelfòs” bisogna tenere conto del fatto che l’evangelista non sta traducendo dall’aramaico. Di conseguenza, per quanto riguarda Il Nuovo Testamento, non possono essere mosse le medesime obiezioni che riguardano l’Antico Testamento, dove giustamente “adelfòs” sta ad indicare un più generico grado di parentele. Anche ammesso che i redattori del Nuovo Testamento tenessero presente, al momento della scrittura, qualche antico testo aramaico (ma ciò è una mera ipotesi e non è mai stato dimostrato), bisogna considerare che, a dispetto dei traduttori della Septuaginta, gli evangelisti non ritenevano di trovarsi di fronte un testo sacro, immodificabile, e dunque da rendere alla lettera. Basti considerare le numerose correzioni che Luca e Matteo apportano al testo greco di Marco.
Ancora più evidente è il caso dei riferimenti ai fratelli di Gesù presenti nella tradizione paolina (si veda ad es. Gal 1: 19; 1 Cor 9,5). In questo caso Saulo Paolo non sta traducendo da qualche antico testo aramaico, come pure è evidente che non ne stia tenendo a riferimento uno, ma si tratta di una sua personale orazione redatta ex novo in lingua greca, con un suo particolare stile e tecnica di scrittura. Risulta pertanto improponibile che quando Paolo scrivesse che Giacomo è il “fratello” del signore intendesse, in realtà, fratellastro o cugino, sopratutto alla luce del fatto che la tradizione paolina dimostra di conoscere bene il termine tecnico atto ad indicare “cugino” (vale a dire anepsiòs, cfr. Col 4:10).
Anche il Nuovo Testamento non utilizza mai il termine “adelfòs” nel senso particolare di cugino, ma lo impiega sempre in due contesti fondamentali, ovvero quando: 1) il termine è utilizzato in senso metaforico (relativo a una presunta “fratellanza universale che ci accomuna in quanto figli di Dio”, cfr. Mc 3: 35; At 2:29; 1 Cor 1:1; 5:11 ecc.); e quando 2) il termine è utilizzato in senso letterale. Prendendo in considerazione questo ultimo contesto, i casi di fratelli germani sono chiari ed evidenti: basterebbe citare il caso di Mc 1:19, 20 quando Giacomo e Simone vengono definiti “figli di Zebedeo”. Difatti un esegeta che operasse su mere basi storiche e filologiche non avrebbe motivo di considerare “fratellastri” o “cugini” i due apostoli. Di conseguenza non si capisce perché si dovrebbe giudicare differentemente il passo di Mc 6,3 quando sentiamo che Gesù è il figlio di Maria e il fratello (“adelfòs”) di Giacomo, Ioses, Giuda e Simone. Delle 343 volte in cui il termine “adelfòs” ricorre nel Nuovo Testamento, vi è solo un caso in cui il termine viene utilizzato nella accezione di “cugino”, precisamente nel caso di Marco 6, 17, dove Filippo viene definito “adelfòs” di Erode Antipa (mentre Giuseppe Flavio ci chiarisce che i due erano fratellastri”).
Pertanto sia la soluzione di Girolamo che quella di Epifanio mancano di una solida base filologica per poter essere sostenute e gli esegeti odierni che tentassero di difenderle sarebbero costretti a costruire complicate ipotesi di parentela – veri e propri castelli in aria – che in alcun modo possono essere dimostrate.
Oltre a ciò bisogna considerare che numerosi padri apologisti preniceani (antecedenti al 325 d.C., data del concilio di Nicea) ritengono gli “adelfòi” di Gesù veri fratelli di sangue.
È il caso di Egesippo, il quale ritiene sia Giacomo (cfr. Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, 2: 23 § 4) sia Giuda (cfr. Eusebio di Cesarea, op. cit., 3:19 e 3:20 § 1) fratelli del Signore (l’ultimo, Giuda, precisando addirittura “secondo la carne” – katà sàrka). Eppure Egesippo dimostra di essere in grado di distinguere tra “cugini” e “zii” di Gesù (cfr. 4: 22 § 4). Anche Tertulliano, uno dei più importanti padri apologisti preniceani, riteneva che i fratelli di Gesù citati in Marco e Matteo fossero veramente suoi fratelli (cfr. Tertulliano, Adversus Marcionem 4: 19; De carne Christi 7; De Monogamia 7; De virginibus velandis 6:6).
Tratto dagli studi di Alessio De Angelis sulla natura dei “fratelli” di Gesù e dal libro di Alessandro De Angelis Gesù, il Che Guevara dell’anno zero