Destino, autorealizzazione o casualità. Nella vita, prendiamo delle scelte, ci imbattiamo in determinate esperienze e qualche volta ci piace pensare che ci sia un disegno dietro tutto questo. Nel tempo, moltissimз studios hanno deciso di impelagarsi nelle strettoie di questo argomento, ognuno proponendo una propria teoria. In un certo senso, gli stessi stadi dello sviluppo proposti da Freud o Erikson non sono altro che dei tentativi di definire delle linee rette all’interno di esperienze di vita confuse e con mille bivi.
Carl Gustav Jung non ha mai parlato di stadi, né di passaggi obbligati che definiscono uno sviluppo “normale”. Nei suoi lunghi anni di studio, invece, ha elaborato un pensiero originale che ruota tutto attorno al concetto di principium individuationis: Il lento lavoro dell’essere umano è quello di INDIVIDUARSI [1].
“Individuazione” rimanda al termine individuo: trovare l’individuo che è in noi. Secondo lo studioso, infatti, la missione dell’essere umano è quella di ricomporre le varie parti che compongono il Sé, conformandosi alla propria peculiarità. Diventare sé stessi allora, non è solo un processo di sviluppo, ma anche di decondizionamento da quello che ci definisce dall’esterno e che non ci appartiene. Jung parlava di opposizione alle norme sociali, ma non di isolamento sociale né di disadattamento dalla collettività. Insomma, è un lavoro lungo e faticoso, e Jung lo sapeva bene.
Lungo, perché può richiedere tutta una vita. Perché siamo complessi e composti da sogni e identità che cambiano continuamente. La sfida, però, non è tanto la riuscita del lavoro, quanto la tensione alla ricerca di sé. Un percorso psicoterapeutico, per esempio, è l’occasione per “sederci” e cercarci, due verbi che non andrebbero mai sottovalutati. Il pensiero di Jung, allora, è un invito a non accontentarci di quello che gli altri dicono di noi, e nemmeno di quello che pensiamo di noi stessi. Se ci predisponiamo all’idea di ricongiungerci alla nostra individualità, allora tutte le esperienze, di successo o fallimentari, sono necessarie perché dicono qualcosa su di noi.
Faticoso perché comporta ricongiungersi con il bello, ma anche con il “brutto” che ci appartiene. A questo proposito, lo stesso Jung aveva individuato il cosiddetto archetipo dell’ombra. Gli archetipi sono concetti astratti che egli utilizzava per descrivere le componenti innate dell’uomo [1]. L’archetipo dell’ombra è, secondo me, uno dei più affascinanti. Siamo portatori e portatrici di ombre che, secondo Jung, sono proporzionali allo splendore che possediamo. Lui le definisce “contraltare inconscio” all’immagine esteriore, necessarie per individuarsi.
Per quanto lontani possano sembrare gli studi di Jung, portano con sé degli elementi contemporanei che dicono qualcosa alla nostra vita. Per esempio, che siamo individui complicati e nessuno ha il diritto di definirci se non noi stessi. Che va bene non riconoscersi e che vanno bene i nostri angoli bui, anzi sono indispensabili.
Marina Cariello
Bibliografia
Aldo Carotenuto. Trattato di psicologia della personalità e delle differenze individuali. Raffaello Cortina Editore: 1996