Fononi al posto dei fotoni, dunque suono al posto della luce, per comunicare con un atomo artificiale. Descritto sulle pagine di Science da un team di fisici teorici e sperimentali della Chalmers University, in Svezia, il risultato apre una nuova frontiera nel mondo dei quanti
di Marco Malaspina
E il manganese come fa? Non c’è nessuno che lo sa, verrebbe da dire. E invece da oggi il verso d’un singolo atomo non solo sappiamo come fa, ma riusciamo addirittura a riprodurlo in laboratorio per comunicare con l’atomo stesso. O meglio, c’è riuscito per la prima volta un gruppo di fisici – un indovinato mix di teorici e sperimentali – della svedese Chalmers University of Technology. I quali, correndo con 125 sottilissime dita d’alluminio dalle unghie laccate di palladio sui tasti all’arseniuro di gallio d’un organo nanotech, hanno dato vita a un concerto per atomo solo che potrebbe segnare una svolta nel trasferimento tecnologico della meccanica quantistica.
Detto in breve, hanno usato fononi come fossero fotoni. Il che significa che se l’atomo di cui parliamo è metaforico, nel senso che si tratta d’un atomo artificiale, il “verso” che può produrre (o captare) è proprio un suono, un’onda acustica in senso letterale. Un suono talmente acuto che nemmeno Maria Callas, visto che parliamo di frequenze attorno ai 4.8 gigahertz: grosso modo venti ottave al di là dell’estensione massima di un pianoforte a coda. Ma pur sempre “particelle di suono”, perché questo è un fonone: un quanto di vibrazione, ovvero «il suono più debole che possa mai essere rilevato», come dice il primo autore dell’articolo pubblicato su Science, Martin Gustafsson.
Ma veniamo all’esperimento. Così come un atomo può essere eccitato da un raggio di luce, fornendogli energia sotto forma di un fotone (fotone che poi l’atomo, a sua volta, potrà emettere tornando allo stato energetico precedente), Gustafsson e colleghi hanno voluto tentare un’operazione analoga usando, al posto del raggio di luce, un “raggio di suono”: un fonone, appunto. Anzitutto si sono costruiti il campo di gioco, costituito da un substrato semiconduttore di arseniuro di gallio, materiale scelto per le sue particolari proprietà meccaniche e piezoelettriche. Quindi vi hanno ricavato al centro il circuito, lungo circa un centesimo di millimetro, che forma l’atomo artificiale: la realizzazione hardware di un cosiddetto qubit, il mattoncino portante dei computer quantistici. Infine, a sollecitarlo ed esserne sollecitati, vi hanno posto un IDT (interdigital transducer): un trasduttore – costituito da 125 coppie di “dita” nanometriche fatte, come dicevamo, d’alluminio e palladio – in grado di convertire un segnale elettrico a microonde in un suono e viceversa. A questo punto, dopo aver portato il tutto a temperature prossime allo zero assoluto (per la precisione, a 20 mK), hanno dato il via alle danze, generando sul substrato le cosiddette SAWs, onde acustiche di superficie che – più o meno come onde luminose – possono correre dalle minuscole dita all’enorme atomo per poi eventualmente tornare indietro.
Tutto meraviglioso, ma a che può mai servire generare un suono che udire non si può?
Ebbene, garantiscono gli scienziati, le applicazioni possono essere moltissime. Più o meno come onde luminose, abbiamo scritto. Ecco, le possibilità di applicazione dipendono proprio da quel più o meno. Una differenza importante tra fotoni e fononi è che, mentre i primi viaggiano alla velocità della luce, i fononi si muovono a quella del suono: un’andatura pur sempre rispettabile, dunque, ma decisamente più rilassata. Insomma, sono assai più lenti. E viaggiare con lentezza, nel mondo dei quanti, può avere i suoi vantaggi. Per esempio, a parità di frequenza, un’onda sonora ha una lunghezza d’onda molto più corta. Più corta al punto da essere tipicamente inferiore alle dimensioni di un singolo atomo, al contrario di quanto accade a un’onda di luce. Il che consentirebbe a un’onda acustica d’interagire con gli atomi con una precisione e un’intensità impensabili usando onde elettromagnetiche. «Grazie alla bassa velocità del suono, avremo inoltre il tempo per controllare le particelle quantistiche mentre viaggiano», aggiunge poi Gustafsson. «Con la luce, che si muove 100 mila volte più veloce, questo sarebbe assai difficile».
Leggi su Science l’articolo “Propagating phonons coupled to an artificial atom“, di Martin V. Gustafsson, Thomas Aref, Anton Frisk Kockum, Maria K. Ekström, Göran Johansson e Per Delsing
(INAF)