Arriva dall’università di Valencia uno studio che prova a spiegare i buchi neri applicando gli strumenti teorici usati di solito per descrivere strutture cristalline o strati di grafene. Con i wormhole che diventano una sorta di “porta sul retro”.
Non aprite quel wormhole… e invece loro sono andati a scardinarlo, scoperchiando i buchi neri con strumenti matematici pensati per altre discipline, come la fisica dei materiali.
E che si applicano di solito per descrivere cristalli o strutture di grafene. Quel che ne è emerso, riportato in uno studio pubblicato lo scorso aprile sulle pagine di Classical and Quantum Gravity (ma ripreso solo a fine luglio dall’università in cui è stato condotto), è un universo nel quale la materia potrebbe forse sopravvivere a una scorribanda attraverso questi oggetti spaziali che più estremi non si potrebbe. Per poi uscirne – indenne? chissà… – dall’estremo opposto.
Loro, gli “scardinatori”, sono un trio di fisici teorici guidato da Gonzalo Olmo dell’università di Valencia, e la loro proposta ha qualcosa di déjà-vu. Un po’ perché non è la prima volta che vengono formulate ipotesi analoghe (ne abbiamo parlato anche su Media INAF). Più letteralmente, perché così come i déja-vu – spiegava Trinity a Neo – sono imperfezioni di Matrix, quelle singolarità che siamo soliti chiamare buchi neri, nello studio di Olmo e colleghi, diventano imperfezioni di quella matrice quadrimensionale nota come spaziotempo. Una soluzione – o un escamotage, a voi la scelta – che risolverebbe, così almeno scrivono i tre fisici, l’anomalia d’una deformazione della curvatura spaziotemporale prodotta da un’attrazione gravitazionale infinita.
«Così come nella struttura microscopica dei cristalli sono presenti imperfezioni», spiega Olmo, «la regione centrale d’un buco nero può essere interpretata come un’anomalia nello spaziotempo, che per essere descritta con precisione richiede nuovi elementi geometrici. Abbiamo esplorato tutte le possibilità, prendendo ispirazione da quello che si osserva in natura».
Facendo ricorso a queste nuove geometrie, i ricercatori hanno ottenuto una descrizione nella quale il centro dei buchi neri diventa una piccolissima superficie sferica. Una superficie che può essere interpretata come la presenza di un wormhole all’interno del buco nero. «La nostra teoria risolve con naturalezza numerosi problemi nell’interpretazione dei buchi neri elettricamente carichi», dice Olmo facendo riferimento a un tipo di buchi neri contemplato dalla relatività generale, sebbene sembri improbabile che ne esistano in natura. «E il primo problema che risolviamo è quello della singolarità, poiché vi è una porta al centro del buco nero, il wormhole appunto, attraverso la quale lo spazio e il tempo possono mantenere continuità».
Un altro problema che secondo Olmo verrebbe meno è la necessità, per “aprire” il wormhole, di sorgenti d’energia esotiche. Stando alla gravità einsteniana, queste “porte” dovrebbero manifestarsi solo in presenza di materia con proprietà alquanto insolite, tipo una densità o una pressione a energia negativa, e in ogni caso mai osservata in natura. «La nostra teoria», sostiene invece Olmo, «prevede che il wormhole possa apparire anche da forme di materia o energia ordinarie, come per esempio un campo elettrico».
Quello preso in esame nello studio è il tipo di buco nero più semplice: non in rotazione e, come dicevamo, elettricamente carico. Dalle equazioni che lo descrivono emerge un wormhole più piccolo di un nucleo atomico, ma che diventa sempre più grande mano a mano che aumenta la carica immagazzinata nel buco nero. Il solito, malcapitato, ipotetico viaggiatore che entrasse in un buco nero di tal fatta verrebbe sì stiracchiato fino all’impossibile – “spaghettificato”, come dicono sceneggiatori e scienziati – fino ad attraversare il wormhole, ma all’uscita riacquisterebbe le dimensioni di partenza. E se visto da fuori lo stiramento apparirebbe infinito, chi lo vive in prima persona sperimenterebbe forze solo estremamente intense, ma non infinite. Provare per credere.
Marco Malaspina