di Fausto Intilla – oloscience
È da circa un secolo ormai (ovvero dai tempi dell’interpretazione di Copenaghen, nel 1927), che la meccanica quantistica (persino nelle versioni più moderne) non può fare a meno del “ruolo dell’osservatore” per esprimere i suoi principi ed i suoi effetti sulla realtà a noi circostante, mutevole e dinamica proprio in funzione di chi la “osserva” (non a caso ho messo tra virgolette quest’ultima parola; tra breve ne capirete il motivo). Dunque, se si escludono alcune interpretazioni alternative della meccanica quantistica (come ad esempio la teoria oggettiva del collasso, di cui fanno parte, per citarne due, la teoria GRW e l’interpretazione di Penrose), rimane sempre centrale il ruolo dell’osservatore nella creazione/trasformazione dei processi fisici subatomici, che danno forma in ultima istanza, alla realtà del mondo come lo conosciamo. Per non annoiare nessuno dei miei lettori, non mi addentrerò a questo punto negli aspetti tecnici inerenti agli operatori della MQ, alla teoria delle osservabili e al collasso della funzione d’onda. Non sarà quindi un articolo sui misteri e i paradossi che ancora oggi, avvolgono i fondamenti e i principi della MQ, definiti da un formalismo matematico che solo poche persone al mondo, sono in grado di comprendere fino in fondo in ogni minimo dettaglio. Sarà invece un articolo incentrato sul concetto stesso di “osservatore”, ovvero sulle innumerevoli accezioni che tale termine può indurre ad immaginare, a credere (o a presumere, per le menti più sveglie).
Che cosa si intende dunque per “osservatore”? Un essere umano dotato della percezione sensoriale visiva? Oppure un animale diverso dall’uomo (un cane, un gatto, un pesce, etc.), purché anch’esso dotato del senso della vista e di una mente/cervello in grado di elaborare l’informazione che la natura stessa della luce è in grado di offrirci? Ma siamo proprio sicuri che occorra avere un cervello, nonché la percezione sensoriale che ci offre la vista, per poter elaborare l’informazione a noi circostante? Può una mente esistere ed osservare la realtà ad essa circostante, senza dover necessariamente disporre di un “supporto organico” il cui aspetto fisico ci conduca alla definizione di “cervello”? Un’entità biologica che possa definirsi intelligente, deve necessariamente disporre di un cervello? A volte mi chiedo se i padri fondatori della meccanica quantistica, verso la fine degli anni Venti del secolo scorso, si siano mai posti tali domande.
Oggi fortunatamente disponiamo di un nuovo modello, molto più evoluto, rispetto a quello classico della MQ definito dai suoi padri fondatori nella prima metà del XX secolo. Questo modello viene chiamato: interpretazione relazionale della meccanica quantistica. In tale modello della MQ, qualsiasi sistema fisico (persino un fotone!) può essere considerato come un “osservatore”; e di conseguenza qualsiasi interazione fisica può essere vista e trattata come una misurazione. Si tratta dunque di una descrizione della realtà in cui i risultati delle misurazioni non hanno alcun “valore oggettivo assoluto”, se non quello relativo al sistema osservatore (dove tutte le quantità fisiche chiamate in causa, sono tra loro “relazionali”). La realtà, in tale contesto, viene dunque definita sempre in modo oggettivo, ma non in termini assoluti! Tutto dipende dai sistemi considerati che pongono in essere il concetto stesso di “misurazione”. Da un punto di vista prettamente tecnico, possiamo affermare che nella meccanica quantistica relazionale, il vettore di stato “classico” della MQ tradizionale, si trasforma/muta in una descrizione della correlazione di alcuni “gradi di libertà” nell’osservatore, rispetto al sistema osservato.
Siamo dunque giunti al nocciolo della questione: tutto ciò che interagisce con il mondo fisico, osserva ed elabora informazione! Ancora non ci è chiaro in che modo possa farlo un’entità fisica macroscopica non organica ed inanimata, ma è assai probabile che anche queste ultime siano in grado, se non di elaborare, perlomeno di “registrare” informazione. Se andassimo ad osservare la natura subatomica di una comune pietra da giardino o di qualsiasi altro oggetto inanimato, grazie al moto perenne di tutti i suoi elettroni, esso ci apparirebbe “vivo”! La realtà del mondo e dell’intero universo, è costituita da una moltitudine sconfinata di osservatori dalle forme più disparate e spesso inimmaginabili, per un essere umano.
Goethe, circa due secoli fa ebbe a dire: “Gli occhi devono la propria esistenza alla luce. Diversamente dagli organi animali indifferenti, la luce genera un organo che corrisponde a sé stessa”. Ma è possibile osservare il mondo senza “vederlo”, nel modo in cui lo vediamo noi esseri umani? Pensiamo ad esempio alle vespe; esse dispongono di una tipologia di percezione visiva che non permette loro di percepire il movimento relativo. Per la vespa tutto è fermo! La vespa non vede le cose, può soltanto localizzarle. Esistono animali con occhi esposimetri, occhi sestanti, occhi telemetri e occhi la cui unica capacità è quella di riconoscere il movimento. Tuttavia, tali limitazioni visive non si osservano mai nel normale svolgersi della vita di questi animali, ma solo quando si verificano dei cambiamenti radicali nel loro ambiente. Ad esempio, se catturiamo un rospo e lo imprigioniamo in una gabbia, anche se gli offrissimo quotidianamente delle mosche morte per nutrirsi, esso comunque morirà di fame nell’attesa che qualche insetto vivo gli passi davanti agli occhi! Dove risiede dunque, la “reale consapevolezza” del mondo a noi circostante, solo negli esseri umani? Poiché dotati di un diverso e “migliore” senso della percezione visiva? Non dimentichiamoci del fatto che i nostri occhi possono elaborare solo le informazioni provenienti dallo spettro della luce visibile, che rappresenta solo una piccola parte dell’intero spettro elettromagnetico!
Lo scultore italiano Giovanni Gonnelli (1603-1664), noto come “Il cieco da Gambassi”, divenuto cieco per una malattia all’età di ventisette anni, creò la migliore opera della sua vita (il busto di papa Urbano VIII, nel 1637) basandosi solo sul tatto! Se pensiamo ad esempio ai dispositivi ideati e sviluppati già negli anni Settanta del secolo scorso dal neuroscienziato americano Paul Bach-y-Rita, per la sostituzione sensoriale della percezione visiva, ci accorgiamo subito che la mente umana non è mai troppo esigente riguardo alla provenienza delle sue informazioni sensoriali. Tali dispositivi permettevano a persone del tutto cieche, di “vedere” con la pelle della schiena o della pancia! Dunque non con gli occhi, i principali organi funzionali al senso della vista, bensì con altri organi o parti del corpo umano! Ciò che conta dunque è la “forma” assunta dall’informazione. Se l’informazione visiva giunge ad esempio attraverso la pelle della schiena, basteranno solo due ore affinché il cervello incominci a “vedere” tramite la schiena! Gli organi di senso si sono specializzati nel tempo attraverso l’evoluzione, senza però mai separarsi del tutto gli uni dagli altri. I bastoncelli dell’occhio umano (ovvero una tipologia di cellula fotosensibile della retina), si comportano in modo simile alle cellule muscolari; essi infatti rispondono ad un impulso elettrico, anche se questo non proviene da un nervo ma consiste in una reazione chimica alla luce. Ciò che fa, in sostanza, una retina che lavora, è trasformare la luce in determinate strutture. Grazie alla convergenza evolutiva, scopriamo ad esempio che, anche se non imparentati, l’occhio di un vertebrato e quello di un cefalopode, con l’evoluzione hanno acquisito molte strutture simili.
La talpa Condylura cristata (detta talpa “dal muso stellato”), riesce a “vedere” solo attraverso il tatto. Il suo naso si è evoluto diventando un organo carnoso mobile largo circa un centimetro. Si tratta di un organo incredibilmente sensibile ed ha una quantità di fibre nervose, cinque volte maggiore rispetto a quella presente nella mano di un essere umano! Un fatto davvero impressionante, inoltre, è che la distribuzione delle terminazioni nervose, ha diverse somiglianze di superficie con la retina dell’occhio di un mammifero. Dobbiamo inoltre ricordare che persino la luce polarizzata, viene sfruttata in vari modi nel regno animale.
Ad esempio le api si basano su tale tipologia di radiazione elettromagnetica per orientarsi; tuttavia, la maggior parte dei suoi 5’500 ommatidi è ruotata di 180° lungo il proprio asse e quindi non è sensibile in alcun modo alla luce polarizzata. Ogni animale percepisce un range di frequenze dello spettro elettromagnetico leggermente differente, che dipende dal modo in cui vengono sfruttate particolari lunghezze d’onda della luce. Ad esempio alcune specie di pesci e di farfalle percepiscono una certa frazione di infrarosso e grazie a tale capacità, all’alba e al tramonto hanno una maggiore sensibilità alla luce. Gli insetti, gli uccelli, i pesci e i topi percepiscono lunghezze d’onda più corte rispetto a quanto sono in grado di percepire gli esseri umani, spingendosi addirittura nel campo dell’ultravioletto.
Molti fiori esibiscono eccezionali disegni visibili soltanto alla luce ultravioletta, utili per attirare gli insetti impollinatori. Nessun animale di grandi dimensioni, tuttavia, è in grado di vedere la luce ultravioletta. Ma il fatto più sorprendente, riguardo alla percezione visiva, venne scoperto solo agli inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso, grazie a degli esperimenti compiuti da due gruppi indipendenti di ricercatori (situati negli Stati Uniti e nel Regno Unito), il cui scopo era di rispondere alla seguente domanda: “Che cosa accadrebbe se i nostri occhi non manifestassero le saccadi?”.
Si definisce saccade oculare un breve e rapido movimento degli occhi entro due posizioni stabili, con velocità variabile tra 400 e 800 gradi al secondo (°/s) e una durata inferiore ai 50 millisecondi (ms). Lo scopo di tale movimento, detto appunto saccade, è di portare molto rapidamente l’immagine di un oggetto sulla fovea (la zona centrale della macula; ovvero quella parte della retina in cui la visione dei dettagli è più precisa). Ebbene la sconcertante conclusione a cui giunsero tali ricercatori, attraverso i loro esperimenti, si potrebbe riassumere con le seguenti parole: L’occhio esiste per individuare il movimento. Un’immagine qualsiasi perfettamente fissa sulla retina, svanisce. I nostri occhi non possono vedere gli oggetti stazionari e devono oscillare costantemente per renderli visibili!
Finora comunque, ci siamo soffermati solo nel mondo del regno animale (di cui ovviamente anche l’uomo fa parte); e per quanto riguarda il regno vegetale? Le piante e tutti gli altri organismi vegetali (dal più piccolo al più grande), avranno anch’essi la capacità di “osservare” la realtà che li circonda? E se la risposta è sì, con quali facoltà sensoriali sono in grado di farlo? I vegetali, sono in grado di “vedere” e riconoscere entità fisiche (chimico-biologiche o d’altro genere) a loro vicine? E se anche i vegetali, avessero un certo livello di “consapevolezza”, una certa “intelligenza”?
Pensiamo ad esempio all’euglena, una piccola alga verde unicellulare. Ebbene questo piccolo organismo del regno vegetale, molto simile al paramecio, possiede una sorta di “occhio primordiale”; ovvero un fotorecettore, che dunque le permette di percepire la luce. Come tutti gli altri vegetali, anche l’euglena supplisce al suo bisogno energetico attraverso la fotosintesi; tuttavia, quando la quantità di luce non è sufficiente a garantirle una certa efficienza energetica (grazie al fenomeno della fotosintesi), essa è in grado di individuare il cibo e con l’aiuto di sottilissimi flagelli, di nuotare fino a raggiungerlo! Nel libro “Verde brillante” (il fortunato libro di Stefano Mancuso e Alessandra Viola), gli autori affermano che:
“In una pianta le funzioni non sono legate agli organi. Questo vuol dire che i vegetali respirano senza avere i polmoni, si nutrono senza avere una bocca o uno stomaco, stanno in piedi senza avere uno scheletro e sono in grado di prendere decisioni senza avere un cervello”.
Qualche pagina più avanti, parlando del fenomeno che prende il nome di “fuga dall’ombra”(1), essi affermano che:
“(…) nonostante sia conosciuto da millenni, il significato ultimo di questo comportamento tipico delle piante continua ad essere ignorato o apertamente sottovalutato. Di cosa stiamo parlando in fin dei conti? Di nient’altro che di una vera e propria espressione di intelligenza, che denota calcolo del rischio e previsione dei benefici; una realtà che avrebbe dovuto essere evidente da secoli, se soltanto avessimo guardato alle piante con occhi non schermati dal pregiudizio”.
Se la logica ci porta a credere che qualsiasi entità biologica del regno vegetale, sia dotata di una certa forma d’intelligenza, rimane tuttavia il dubbio sul fatto che tali entità, come sosteneva il grande botanico austriaco Gottlieb Haberlandt (1854-1945) nelle sue ipotesi più azzardate, possano anche ricostruire/”visualizzare” delle immagini relative all’ambiente ad esse circostante, grazie alle loro cellule epidermiche, teoricamente in grado di fungere da lenti (milioni di lenti!), nello stesso modo in cui l’occhio umano utilizza la sua lente naturale, il cristallino (che insieme alla cornea consente di mettere a fuoco i raggi luminosi sulla retina). A tutt’oggi comunque, nessun esperimento è mai riuscito a convalidare tali ipotesi.
Nel 1880, nel libro: “Il potere del movimento nelle piante”, Charles Darwin (al fine di giustificare il concetto di intelligenza nei vegetali) propose l’idea che gli apici radicali(2) fungessero da “cervello diffuso” delle piante, capace di operare alla stregua di un comune cervello di animale inferiore. Come ci ricordano gli autori del libro “Verde brillante”: “È nella radice, anzi, per essere più precisi, nell’apice radicale, ossia nella punta di ciascuna radice, che è possibile verificare la sequenza tipica delle fasi che portano le stimmate dell’intelligenza: percezione degli stimoli ambientali, decisione sulla direzione da prendere, movimento finale”.
Con il presente articolo, ormai giunto al termine, ho voluto semplicemente porre l’accento su una questione che troppo spesso, persino tra coloro che quotidianamente utilizzano equazioni di meccanica quantistica per sondare la natura ultima della realtà, viene sottovalutata o nel peggiore dei casi, mal compresa o fraintesa: la definizione del concetto di osservatore. La mia speranza, è di essere riuscito a suscitare in tutti coloro che sono giunti nella lettura fin qui, una visione della realtà che abbracci non solo i nostri “punti di vista”, ma anche quelli appartenenti ad altri mondi a noi paralleli, con cui da millenni conviviamo ed evolviamo. Gli osservatori sono ovunque e superano di gran lunga quelli di natura umana. Non siamo gli unici a creare e a dar forma alla nostra realtà, all’habitat umano; esso è in buona parte il risultato di una cooperazione inconsapevole tra agenti di natura diversa, ma tutti creatori della medesima realtà.
Fausto Intilla,
3 febbraio 2020
Note:
1- Per un organismo vegetale un’adeguata intercettazione della luce può rappresentare un problema che va risolto nel modo più rapido ed efficiente possibile. Così, quando due piante si trovano a vivere una vicina all’altra, può capitare che entrino in competizione, perché la più alta fa ombra con le sue foglie a quella più bassa. Si tratta di una dinamica che porta le piante a crescere più rapidamente in altezza per superare la rivale, chiamata: “fuga dall’ombra”.
2- Ogni vegetale possiede diversi milioni di apici radicali. L’apparato radicale di una pianta anche molto piccola, può contarne oltre quindici milioni. Ognuno di essi percepisce in continuazione numerosi parametri come gravità, temperatura, umidità, campo elettrico, luce, pressione, gradienti chimici, presenza di sostanze tossiche, vibrazioni sonore, presenza o assenza d’ossigeno e anidride carbonica. Ogni apice dunque, è un vero e proprio “centro di elaborazione dati”, che assieme agli altri milioni di apici, costituisce l’apparato radicale di una pianta.
Immagine d’anteprima: Gerd Altmann da Pixabay