Considerazioni sulla dottrina del Buddha

Il Giornale OnlineDi Antonio Cioppa

Esposta molto sinteticamente la dottrina di Gautama Buddha, è opportuno fare alcune valutazioni. Innanzi tutto è evidente che molti punti della sua dottrina (il samsara, la miseria della vita terrena, l'aspirazione alla salvezza, la svalutazione del ritualismo sacrificale, ecc.) derivano direttamente dalla tradizione brahmanica e in particolare dalle Upanishad; lo stesso apersonalismo non è che uno sviluppo dell'impersonalismo del Brahman-Atman. Ma queste dottrine acquistano nella predicazione del Buddha nuove dimensioni e nuove applicazioni; sono come materiale da costruzione che egli utilizza liberamente, modifica, adatta, secondo che corrispondano o no alla sua esperienza ed ai suoi intenti.

Già erede del pessimismo indiano e pessimista egli stesso in quanto assertore della universalità del dolore, il Buddha è ottimista in quanto crede nella efficacia della «sua» via di salvezza. Egli concentra tutto il suo sforzo costruttivo nell'apertura di questa via; perciò ignora volutamente ogni questione metafisica. La via di salvezza, da lui proposta, è essenzialmente una nobilissima disciplina etica. «Non compiere alcuna specie di male, darsi alle buone azioni, purificarsi la mente, questo è l'insegnamento del Buddha» (Dhammapada, 183). È appunto questo il maggior contributo che il Buddha ha dato alla storia della civiltà: per effetto della sua dottrina, molti popoli hanno raggiunto un alto grado di elevazione morale. La stessa fede induista ha assorbito da essa un novello rispetto della vita altrui, la gentilezza verso gli animali e il senso della responsabilità personale.

Delle tre parti di cui si compone l'ottuplice sentiero (scienza, etica, meditazione) è la seconda che viene radicalmente restaurata. Il ritualismo brahmanico è soppiantato dalla disciplina etica e dalla intenzionalità del valore del karman. Nelle Upanishad l'etica conserva un valore deterministico: l'efficacia dell'azione è automatica e non dipende dalle intenzioni. Anche un'azione compiuta inconsciamente o contro il proprio volere porta i suoi frutti dopo la morte. Solo il Buddha costruisce una vera etica indiana in quanto la libera dal determinismo: l'intenzione vale più della stessa azione. Nell'etica buddhista lo spirito d'amore è più importante delle opere buone:

« Tutte le opere buone non valgono un sessantesimo dell'amore che viene dal cuore»

Per l'accentuazione che nella sua etica acquistano i sentimenti di amicizia e di compassione, il Buddhismo si presenta come la prima religione, in ordine di tempo, che abbia predicato la fratellanza umana. Per questa apertura universale della sua predicazione, il Buddha non può accettare il sistema sociale delle caste. Egli si rivolge non più a determinati strati sociali o etnici, ma semplicemente a tutti gli uomini. Il problema che egli affronta, quello del dolore, è tanto profondamente umano, il linguaggio che egli usa è tanto semplice, che la sua dottrina valica agevolmente i confini geografici dell'India. Essa non è legata a un popolo o a un paese, è una religione universale.
Il Buddha è un autentico figlio dell'India, ma è il solo che abbia saputo parlare a tutti gli uomini. Per questo, malgrado la totale demolizione dell'io e i gravi silenzi sul problema di Dio, la sua dottrina s'irradiò in tutta l'Asia centrale e nell'Estremo Oriente, da Giava alla Cina, dal Tibet al Giappone. In tutti questi paesi, assieme al Buddhismo, penetrò non solo la civiltà indiana ma anche quella iranica e persino quella greca; queste civiltà, incontrandosi, operarono un benefico influsso sulla vita spirituale e sul pensiero oltre che sull'arte e sulla letteratura di quei popoli. L'aver favorito questo pacifico incontro di civiltà non è l'ultimo dei meriti del Buddhismo.
Ma, tenendo conto dei suoi silenzi su Dio, sul divino in generale, può la dottrina del Buddha essere considerata autentica religione? O non è piuttosto soltanto una filosofia? Fra gli studiosi occidentali non è mancato chi ha definito Buddha un ateo logico.

È certo che egli (forse anche per reazione contro le scuole filosofiche che rincorrevano le astruse astrattezze del Brahman-Atman) volutamente ignorò ogni problema metafisico e diede alla sua dottrina un'impostazione essenzialmente pragmatica. Egli non polemizzò mai contro la fede in un Assoluto o negli dèi della tradizione popolare; ma neanche ci è stato tramandato che si sia sentito individualmente responsabile davanti a un dio o che lo abbia pregato. Tuttavia in lui, più che il rifiuto del divino, è possibile individuare il rifiuto di ogni immagine che renda imperfettamente il divino cosi come egli lo concepiva. Ciò significa che egli aveva il sentimento della perfezione che l'Assoluto presuppone.

La preoccupazione di un qualche cosa di superiore e di un aldilà fu sempre presente nel Buddha. Egli ebbe l'idea di un « Supremo », ma non riuscì a scorgere nulla che meritasse veramente d'essere riconosciuto come tale. La preoccupazione dell'Assoluto appare già al termine della meditazione ai piedi di una grande ficus religiosa, nel momento stesso di quella « Illuminazione» dalla quale nascerà il Buddhismo. In quella occasione egli disse: «È un male rimanere senza nessuno a cui testimoniare venerazione e rispetto» (Samyutta I, 140). Ma siccome la sua ricerca rimase infruttuosa, decise di attaccarsi al Dharma (la Legge) che egli stesso aveva scoperto, per onorarlo, rispettarlo e servirlo. A un discepolo che si reca a trovarlo in punto di morte, il Buddha lascia quest'ultimo messaggio: «Sia la Legge il vostro lume e unico rifugio ».

Fu dunque la Legge a fare per lui le veci dell'Assoluto. Lungi dal pretendere una qualche autorità sul Dharma, egli lo proclamò indipendente da chicchessia, lui compreso: «lo non ho creato il Dharma, e nessun altro lo ha creato ». La Legge assume così un aspetto trascendente di primo principio, circondandosi di un'aureola abbastanza vicina a quella della divinità stessa. In conseguenza di ciò, l'ineffabile nirvana, che è acquietamento, pace, spegnimento (nirva letteralmente significa «spegnersi», come di fuoco che smette di «respirare»), che è ricomposizione dell'unica imperscrutabile Realtà dopo la fallace ed inconsistente illusione della molteplicità delle esistenze, acquista una colorazione e una densità chiaramente religiose.

Resta comunque il fatto che al Buddha mancò l'idea di un Dio personale. Ma proprio a lui, che prima intuì e poi predicò agli uomini una Legge di auto-salvezza, a lui che credette di poter prescindere dall'adorazione, dalla preghiera, dal sacrificio, toccò la più imprevista delle sorti: alcuni secoli dopo la sua morte fu deificato da gran parte dei fedeli e posto sul trono dell'universo.

La Comunità

Alla sua morte, Buddha lasciò un ordine monastico (Sangha) già saldamente costituito e notevolmente diffuso. La «Comunità» era composta da tutti coloro che rinunciavano al mondo per dedicare la propria vita alla disciplina mentale e morale dell'ottuplice sentiero. Sembrava infatti che per raggiungere l'illuminazione (bodhi) e l'estinzione dei desideri fosse necessario uno stato di vita libero da preoccupazioni materiali e completamente dedito alla contemplazione.

In effetti il Buddhismo primitivo portava in sé una grave contraddizione: mentre da una parte, affrontando i problemi del dolore e del destino ultimo dell'uomo, si apriva universalmente a tutta l'umanità, dall'altra, manifestandosi ed organizzandosi come comunità monastica, riservava la via di salvezza solo ad una piccola schiera di eletti. Gli stessi buddhisti si resero di conto di questa contraddizione e, dopo un lungo travaglio, la superarono con la scissione del Buddhismo in due correnti: il Piccolo e il Grande Veicolo. Sembra che l'intenzione primitiva del Buddha fosse di limitare ai soli uomini il sistema monastico; ma poi, cedendo a pressanti preghiere (specialmente della suocera, secondo la leggenda), istituì anche delle comunità femminili. Le monache però non furono mai cosi numerose come i monaci e costituirono solo una parte insignificante dell'Ordine.

Sia le comunità maschili che quelle femminili conducevano una vita di ritiro e di contemplazione. In quanto al mantenimento, i membri dell'Ordine dipendevano interamente dalla generosità dei laici. Questi ultimi, pur avendo accettato l'insegnamento del Buddha, non potevano sperare di raggiungere il nirvana, perché non avevano rinunziato ad ogni desiderio, ad ogni attaccamento umano. In generale i laici potevano sperare solo in un karman migliore e di rinascere in uno dei cieli. Fornendo ai monaci i mezzi di sussistenza, oltre che acquistare meriti che favorivano il lungo cammino verso il nirvana, essi compivano un loro preciso dovere. Infatti proprio ai monaci il fedele buddhista deve la trasmissione dell'insegnamento dell'Illuminato alle generazioni future.

Prima di essere ammessi nel Sangha, i candidati dovevano passare attraverso un noviziato. Il novizio doveva avere almeno 15 anni. di età, ma non poteva essere ricevuto definitivamente se non a 20 anni. Sin dal noviziato si doveva fare la professione di fede buddhista, condensata nella formula: «Trovo il mio rifugio in Buddha, nella Legge (Dharma) e nell'Ordine ».

I monaci vivevano in assoluta povertà. Ogni monaco non possedeva più di una veste, una stuoia per dormire, una piccola ascia per far legna da ardere, un ago per cucire, un filtro d'acqua per non uccidere involontariamente, nel bere, esseri viventi e una scodella in cui raccogliere il cibo che mendicava di porta in porta ogni mattina. Tutti i membri dell'Ordine dovevano seguire dieci precetti, che esemplificavano i fattori d'ordine morale dell'ottuplice sentiero. Le macerazioni e le mortificazioni, prescritte da alcune sètte indiane, erano proibite. Malgrado ciò la concentrazione dello spirito e l'attenzione a non danneggiare nessuna vita, neanche del più piccolo animale, richiedeva un continuo e intenso impegno di volontà.

Per regolare meglio la propria condotta, il monaco doveva fare un esame di coscienza e una confessione pubblica delle colpe due volte al mese. La comunità imponeva al colpevole una penitenza proporzionata alla gravità delle trasgressioni. In tempi più recenti si pretese da ciascun membro dell'Ordine anche una confessione privata, resa ad uno dei confratelli. Oltre alla cerimonia della confessione pubblica, detta prâtimoksha, i monaci non avevano altri obblighi comunitari: erano liberi di dedicarsi agli esercizi di concentrazione e di meditazione secondo il grado di crescita spirituale di ciascuno.

Malgrado la continua tensione dello spirito, non tutti i membri dell'Ordine potevano realizzare durante la loro esistenza quel grado di perfezione che dopo la morte avrebbe assicurato l'accesso al nirvana. Solo pochi divenivano arhat, cioè «degni», perfetti; la maggior parte dei monaci raggiungeva gradi inferiori di santità, che comunque erano un progresso sulla via che conduceva al nirvana.

Diritti Riservati: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/

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