Che si farà del babaçu, la pianta della vita?

Il Giornale Online
Un recente rapporto di Un-Energy, organismo Onu composto da esperti di tutte le agenzie e programmi delle Nazioni Unite che si occupano di energia, metteva in guardia il mondo sugli effetti di una diffusione sempre più massiccia delle bioenergie. «Bisogna valutare con attenzione l'impatto economico, ambientale e sociale delle bioenergie prima di decidere se e quanto rapidamente sviluppare l'industria e quali tecnologie, politiche e strategie d'investimento seguire», ammoniva il rapporto.

Nello specifico, sembrerebbe che nel mirino siano entrati 18 milioni ettari di foresta Amazzonica brasiliana. Vi cresce una palma da cocco particolare, il babaçu (Orbignya phalerata martins), meglio conosciuta dalle comunità locali come «la pianta della vita» perché garantisce la sussistenza di milioni di persone che vivono nella regione. Per il povero stato di Maranhao, il cocco è il principale prodotto forestale. La raccolta del frutto viene effettuata esclusivamente da donne, tutta a mano, ed è una tradizione che si tramanda di madre in figlia da generazioni. Ogni donna riesce ad estrarre 8 chili di semi al giorno, guadagnando così circa 3,80 dollari. «Poco denaro» dicono le raccoglitrici «ma molto di più di quello che dà il biodiesel».

Sono quasi 400mila le persone che sopravvivono grazie a questo tipo di cocco, utilizzato nella sua interezza: dall'estrazione dell'olio alle fibre, usate per la fabbricazione di oggetti in vimini, alle foglie per concimare i campi. Ma è soprattutto il frutto a rappresentare la risorsa più grande, perché da esso si ricavano sostanze importanti per l'alimentazione umana e animale. Oltre a servire per la produzione del carbone vegetale. Alle donne del Movimiento interestadual de rompedoras del coco Babasù non bisogna spiegare quali rischi comporta la corsa affannosa del Brasile alla ricerca di energie alternative sostenibili.

Quel Brasile che ora punta anche sul «loro» babaçu, nonostante il contenuto oleoso di questo frutto sia solo del 7%. La soluzione potrebbe essere la produzione industriale, afferma Carvaho Silva, coordinatore del nucleo biodiesel dell'università di Maranhao. Poiché il frutto si utilizza tutto – dice – si potrebbe realizzare una filiera che unisce industria alimentare, fertilizzanti, energia, prodotti cosmetici …Insomma, senza interrompere la fonte di guadagno delle «romperodas del coco».

Alle parole di Silva segue la proposta del governo centrale: un impianto pilota per produrre combustibile autonomamente: 250-280 litri al giorno di biodiesel purificato per decantazione, senza costose centrifughe. Ma quelle donne, abituate a lottare per la loro sopravvivenza e quella delle comunità rurali, poco o nulla si fidano delle promesse del governo. Temono un déjà vu. Ulteriore privatizzazione del territorio, creazione di nuove aree minerarie o zone per il taglio del legname. Del resto è iniziata proprio con l'apertura della rete autostradale trans-amazzonica la distruzione della foresta di babaçu. Tra il 1967 e il 1984 ben 1,35 milioni di ettari sono stati «occupati» dalle grandi industrie, con conseguenze devastanti.

Ma le «rompedoras del coco», non avevano abbassato il capo. Dopo anni di battaglie portate avanti insieme ad alcune ong contro le industrie multinazionali, per garantire la permanenza delle famiglie rurali sulla loro terra, le organizzazioni contadine che lottavano per il libero accesso alle palme che si trovano nelle terre pubbliche e private sono riuscite a portare a casa anche qualche risultato. Alcuni municipi dello Stato del Maranhao hanno approvato infatti la legge «babaçu livre», che proibisce il taglio degli alberi e dei caschi di cocco e l'uso di erbicidi, oltre a garantire il libero accesso alla raccolta dei frutti.
Ora c'è un'altra lunga battaglia da affrontare in difesa della «pianta della vita». E le «romperodas del cocco», ancora una volta, sono pronte alla sfida.

di PatriziaCortellessa

fonte:www.ilmanifesto.it